Spesso si sente dire che quel tale libro è “infilmabile”, cioè impossibile da adattare (con buoni risultati) per il cinema. Perché sfrutta in maniera radicale gli strumenti del testo scritto, è ripiegato all’interno del personaggio con flussi di coscienza e discorsi indiretti liberi, o poggia parte del suo fascino su sensi impossibili da riprodurre con altrettanta accuratezza sullo schermo, come il tatto, l’olfatto e il gusto.
American Gods, il romanzo di Neil Gaiman del 2001 che ha fatto conoscere lo scrittore al grande pubblico, dopo due decenni passati tra giornalismo, fumetti, televisione e libri per l’infanzia, non è particolarmente infilmabile. La sua storia, pur ricca di momenti dialogici, si fa forza di uno spunto fantasy calato nella concretezza greve dell’America, ma è abbastanza convenzionale nel suo svolgimento e limpido nel modo in cui descrive i fatti. Tant’è che l’anno scorso Bryan Fuller e Michael Green ne hanno ricavato un’omonima serie televisiva.
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Sempre nel 2017 Dark Horse ha dato alle stampe l’adattamento fumettistico del romanzo. Con 27 numeri previsti, divisi in tre cicli, il primo dei quali, Le ombre, è raccolto ora da Mondadori per l’etichetta Oscar Ink, in un’edizione curatissima. In questo volume assistiamo all’introduzione di Shadow Moon, un galeotto che ha appena riconquistato la libertà e che finisce in mezzo a un conflitto tra le vecchie divinità del mondo, quelle delle mitologie egiziane, africane, nordiche e i nuovi dei della società (la tecnologia, i mass media).
A rinchiudere le parole di Gaiman attorno a un balloon c’è Philip Craig Russell, sodale dello scrittore su Sandman che ha già trasposto Coraline, The Graveyard Book e Cacciatori di sogni in altrettanti fumetti. American Gods non è il primo lavoro di Gaiman che affastella uno o più cambi d’abito, spesso arrivando a fare il giro (Cacciatori di sogni era un racconto di Sandman diventato prosa illustrata ridiventato fumetto) ed è sintomo poetico di uno scrittore che ha travalicato i mezzi espressivi con una disinvoltura rara, se non unica. Tant’è che questi adattamenti gaimaniani potrebbero quasi diventare sottogenere a sé, data la loro quantità.
Uscite in contemporanea, le due serie di American Gods, quella fumettistica e quella televisiva, affrontano i problemi da due prospettive diverse, perché le soluzioni che possono offrire si scontrano con le limitazioni (di budget, di pagine) e la messa in scena, che a seconda del mezzo può risultare più o meno “possibile”, pacchiana, o azzeccata. Gli incroci delle variabili si moltiplicano esponenzialmente se si considera che ogni iterazione, pur avallata da Gaiman, aveva dietro di sé un autore diverso.
A Gaiman interessava parlare dello spaesamento vissuto da un immigrato, dello scontro tra divinità vecchie e nuove, della fede e degli strani giochi che fa la memoria. Affrontava i media e internet con la mentalità di qualcuno che scrive nel 2001: la dea Media vive attraverso radio, tv e giornali mentre Ragazzo Tecnologico, l’incarnazione dell’internet, è un nerd ciccione filtrato dall’estetica di Matrix.
Mentre gli showrunner della serie ci hanno aggiunto la sorveglianza di massa e la post-verità e sono stati attentissimi ad aggiornare certi passaggi (nello show Ragazzo Tecnologico è la versione metanfetaminica di uno stagista della Silicon Valley), Russell è meno interessato alla questione – il suo Ragazzo Tecnologico è riproposto senza ammodernamenti – e più preoccupato di rendere vivido il protagonista, Shadow, che nel libro e nella serie tv serve come punto d’entrata per il lettore nel mondo degli dèi invece che come fulcro emotivo della vicenda.
Questo arco narrativo traduce le prime duecento pagine del romanzo, in un rapporto di quasi 1:1. Ma quello che Gaiman riesce a infilare in una pagina di testo, Russell deve farlo stare in una pagina di parole e immagini. Un lavoro difficile per una storia che, almeno in questa parte, è sostanzialmente dialogica. Comprensibilmente, per un lavoro che ha come target primario i fan di Gaiman, la voce narrante è intoccata, se non per piccole cesure o modifiche (in italiano questa simultaneità si perde perché Leonardo Rizzi prende il posto di Katia Bagnoli, l’adattatrice del romanzo, ai comandi della traduzione). Ed è una voce letteraria, fiorita e ironica.
L’inglese pensa da romanziere e con quello spirito affronta tutte le altre forme di scrittura. Come scrisse Marco Andreoletti, il Gaiman fumettistico «ci penserà sempre due volte prima di tagliare una didascalia in favore della pura leggibilità». Russell fa fatica a tagliare, sembra quasi che non voglia togliere la patina libraria al fumetto: tiene molte descrizioni, anche quelle che potrebbe traslare in immagini, e fa un editing spietato sui dialoghi, riducendo al minimo le conversazioni pur senza affrettare troppo le vicende (di contro, la serie tv riusciva ad annoiare pur scorciando molti passaggi).
In questo processo, l’autore fatica molto a dare un senso compiuto al fumetto, che per la gran parte della durata sembra quello che è, cioè l’adattamento di un romanzo. Poi però, in alcuni momenti, a Russell scatta la molla e ne viene fuori qualcosa di fumettistico. Sono luoghi fugaci, attimi minimi, eppure vorresti che Russell tenesse quella condotta sempre, perché in quel caso staresti leggendo un fumetto-fumetto.
C’è una scena, per esempio, dove Russell fa una cosa che né il libro né la serie tv hanno fatto: ci fa entrare nella mente del protagonista attraverso le immagini e non le parole. Shadow sta chiamando sua moglie dal telefono della prigione per sentire come sta. Gaiman li fa conversare senza aggiungerci descrizioni particolari e lo stesso fanno nella prima puntata dello show. Russell invece associa a ogni dialogo della moglie un ricordo che Shadow ha di lei. Ecco che mentre la donna racconta del più e del meno, il marito la vede camminare su un prato fiorito o distesa morbida su una spiaggia.
Ancora, la scena in cui la dea Bilquis ingolla un povero malcapitato attraverso la sua vagina nella serie tv è resa con un gioco di prospettive forzate abbastanza povero e dall’alto gradiente di kitsch, mentre nel fumetto è una sequenza erotica e colorata che ricorda da vicino lo spezzone What Shall We Do Now? di The Wall, in cui due fiori, uno femminile e l’altro maschile, lottano cambiando forma finché la femmina ingoia il maschio e si trasforma in una creatura alata.
Scott Hampton, fumettaro ormai prestato al mondo dell’illustrazione, è chiamato a finalizzare i layout di Russell e la sua mano, pur pesantemente guidata da Russell, è a tratti rigida. Quando Russell entra in scena per disegnare l’introduzione di Bilquis, il confronto vede Hampton perdere di diverse lunghezze. Vero è che Russell si prende le sequenze più oniriche e lascia a Hampton pagine su pagine di teste parlanti, di personaggi seduti tra un letto e una scrivania, su cui operare variazioni è un compito ingrato. Hampton di sicuro non sembra metterci impegno, visto che ci sono pagine in cui gli sfondi scompaiono e lo spazio viene riempito con una tinta di colore piatta e un faretto di luce.
Per il fan di Gaiman che si sciroppa la stessa storia per la terza volta, ci sono pochissimissimi momenti di stupore e sorpresa, per tutti gli altri forse la lettura risulterà un’esperienza piacevole. Tuttavia, troppo spesso American Gods sembrerà loro incastrato a forza in una forma che non è la sua e che per esserlo avrebbe avuto bisogno di cambiamenti più aggressivi. Vorresti fartelo piacere, perché l’idea di un pantheon che si contende le attenzioni degli uomini resta affascinante, vorresti che la confezione, sontuosa e una spanna sopra a gran parte dei prodotti simili, contenesse un fumetto altrettanto memorabile, ma questa comunione d’intenti si realizza solo in sporadici passaggi, che pur dimostrano quanto la forma fumetto sarebbe stata un adattamento migliore della serie tv se soltanto ci si fosse sforzati di staccarsi dalla voce del libro.
American Gods vol. 1
di Neil Gaiman, Philip Craig Russell e Scott Hampton
Traduzione di Leonardo Rizzi
Mondadori Oscar Ink, marzo 2018
Cartonato, 280 pp a colori
€ 25,00