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Cosa è stato Brian Michael Bendis per la Marvel

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Per quasi vent’anni, Brian Michael Bendis è stato la Marvel Comics. Se si dovesse scegliere un nome soltanto, il suo sarebbe quello più adatto a rappresentare i mutamenti della casa editrice all’alba del nuovo millennio e la sua trasformazione in un colosso editoriale al passo coi tempi.

Non stupisce quindi che la notizia della firma di un contratto in esclusiva con DC Comics abbia travolto la stampa, specialistica e non, arrivando perfino sulle pagine del New York Times e del Washington Post.

Il cambio di casacca ha la magnitudine dell’approdo in DC Comics di Jack Kirby negli anni Settanta o, più di recente e in minor misura, di John Romita Jr., volto Marvel per molti decenni. Ma l’addio alla Casa delle Idee di quest’ultimo, che pure lì era nato, cresciuto e invecchiato, ha avuto un peso diverso, perché Bendis è percepito, e in fin dei conti lo è stato, come l’architetto della Marvel del Ventunesimo secolo.

Brian Michael Bendis al Wondercon 2015 | foto di Gage Skidmore
Brian Michael Bendis al WonderCon 2015 di San Francisco | Foto di Gage Skidmore

Le ragioni dell’addio

«Non c’è ragione di credere che Bendis fosse scontento di lavorare in Marvel, dato che è stato il più grande sostenitore online dell’azienda», ha scritto Abraham Riesman su Vulture. «Credo di essere nell’azienda giusta», diceva Bendis qualche anno fa, «anche se a volte penso a cosa potrei fare con i personaggi DC e mi dico “Nah, il mio posto è qui, questa è la mia passione”». È nell’universo Marvel che Bendis è nato come lettore e aspirante fumettista: nel manuale-barra-autobiografia Words for Pictures ricorda come a sei anni avesse annunciato alla famiglia di voler diventare scrittore e disegnatore dell’Uomo Ragno, «anche se all’epoca non avevo idea di cose volesse dire».

Fonti vicine all’autore affermano che fosse in dissenso con le dichiarazioni del vicepresidente senior delle vendite e del marketing David Gabriel sul bisogno di limitare la diversità dei personaggi. I problemi verso l’inclusione di tradizioni diverse da quella dell’uomo bianco non devono essere andati giù a Bendis, che tanto si è speso per inserire nell’universo Marvel personaggi di etnie diverse, come Miles Morales (il nuovo Uomo Ragno) e Riri Williams (una versione femminile di Iron Man), e che ha a cuore il tema, avendo una famiglia multietnica.

Lo smantellamento del Marvel Comics Creative Committee, quel gruppo di autori e personalità che supervisionavano il lavoro del presidente dei Marvel Studios Kevin Feige, potrebbe essere stato un altro motivo per lasciare la Marvel. Bendis, che fu chiamato proprio da Feige per piantare il seme dell’universo cinematografico e scrivere la scena dopo i titoli di coda di Iron Man in cui Nick Fury proponeva a Tony Stark l’idea dei Vendicatori, ne era uno dei principali animatori.

Bleeding Cool, dopo aver lanciato il sasso, nasconde la mano scrivendendo che questi sono tutti frammenti di un ipotetico discorso sull’abbandono di Bendis. Nulla di ufficiale, dunque. Stando alle dichiarazioni dello sceneggiatore sul New York Times, si tratterebbe soltanto di «voler vedere cosa c’è dietro la tenda n.2», perché «con quelli della Marvel siamo rimasti amici».

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I primi lavori

Dopo un esordio nell’editoria indie (Goldfish, Jinx) e i lavori per Image Comics – in un’era in cui però la casa editrice non era ancora quella che conosciamo – come Torso, Powers e Sam and Twitch, nel 2000 lo scrittore migrò in Marvel, passandoci tutto il resto della sua vita lavorativa fino a oggi. Quando Bendis arrivò alla Casa delle Idee, Joe Quesada lo accolse dicendogli «Benvenuto nel mondo dei fumetti». Bendis gli rispose che realizzava fumetti già da un bel po’. Quesada non riuscì a trattenere una risata. «Non avevo capito», avrebbe poi commentato Bendis in un’intervista con Multiversity. «Lì la gente ci urlava i peggiori insulti. Nel fumetto indipendente l’unico tuo nemico era l’indifferenza».

Bendis fu assoldato da Quesada e Bill Jemas per sperimentare con un’idea che era più avanguardistica di quanto sembrasse, il reboot (sebbene nel fumetto questo riazzeramento si fosse già visto, quello di Marvel rappresentava un primo tentativo di reboot attualizzante, come verrà percepito da lì a poco in ambito cinematografico). L’iniziativa, dal nome Ultimate, avrebbe esordito con un remake di Spider-Man.

Non molto tempo prima, erano già stati derisi per quel tentativo a fondo perduto di lucro andato sotto il nome di Spider-Man: Chapter One, in cui le origini dell’Uomo Ragno erano state rinarrate in un’ottica contemporanea. La testata, firmata da John Byrne, era stata disconosciuta: per Byrne il massimo della contemporaneità era che, invece di un microscopio, sulla scrivania di Peter campeggiasse un computer. Occorreva un personaggio che pensasse come un giovane del Ventunesimo secolo, non soltanto che ne utilizzasse le tecnologie.

L’apporto di Bendis fu da subito essenziale: «L’universo avrebbe dovuto chiamarsi Ground Zero», rivelò Joe Quesada. «Piaceva a tutti, ma Brian convinse il gruppo a cambiare nome: Ground Zero, diceva, aveva una connotazione negativa – lo zero – e la linea sarebbe dovuta nascere sotto auspici più ottimistici».

Se Chapter One si era limitato ad aggiornare l’oggettistica, Ultimate Spider-Man avrebbe cercato di irretire la follia del mondo reale con una dose di quella che potrebbe essere definita “plausibilità fantastica”, spurgando il fumetto di tutti quegli elementi da cartone che ne avevano minato la credibilità, e di aggiornare ciò che, pur funzionando drammaturgicamente, era percepito come superato. Negli anni Sessanta, il fulcro degli studi scientifici era il nucleare, le radiazioni casuali che davano forma e colore alle paure da Guerra Fredda, nel Duemila sarebbero stati la genetica e il techno thriller complottistico a vidimare la nascita dei supereroi.

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Da Jessica Jones ai Vendicatori

Bendis tenne a battesimo anche un’altra linea, diametralmente opposta a quella Ultimate: MAX, l’etichetta per lettori maturi con cui la Marvel si spingeva in territori indie. Lo fece con Alias, un titolo con protagonista Jessica Jones, personaggio creato ex-novo che fuggiva, nella forma e nella sostanza, dalle consuetudini supereroistiche. Disegnata da Michael Gaydos, la serie era uno dei simboli della Nuova Marvel di Quesada, insieme a New X-Men, Ultimate Spider-Man e X-Force, e portò una mentalità televisiva (per scrittura e utilizzo di pochi ambienti) nel paradigma fumettistico.

A caratterizzare Alias, inoltre, ci fu una trattazione adulta della materia, che non significava violenza e parolacce, ma un approccio realistico alle vicende. Lo stesso avrebbe poi fatto nella sua gestione di Daredevil con Alex Maleev, capace di rivaleggiare con quella di Frank Miller per la dose di noir. Ma se Miller aveva guardato agli autori degli anni Quaranta e Cinquanta, Bendis avvicinava la realtà alla pagina attraverso le influenze di romanzieri crime a lui contemporanei.

Bendis spedì Devil in luoghi narrativi inesplorati, gli mise davanti un ostacolo dopo l’altro, perché più grave era la situazione in cui lo faceva precipitare e più sarebbe stata interessante la vicenda. Lo stile era sobrio, il racconto si concentrava sulle cadute degli uomini e sulle crisi identitarie, Maleev tolse ogni genere di orpello, e così i due consegnarono alla Storia un ciclo austero e raffinato. Devil può essere scritto in molti modi – anche scanzonato, come ha fatto di recente Mark Waid – ma, in quella tonalità, nessuno l’ha suonata meglio di loro.

Le fondamenta della nuova Marvel erano state poste e non passò molto prima che Bendis venisse convocato a sistemate un altro franchise scalcagnato, quello dei Vendicatori, il cui parco testate venne gentrificato e fatto diventare il cuore pulsante dell’editore. Partì tutto da una discussione con Mark Millar, l’altro enfant terrible reclutato da Quesada: «Continuavo a chiedermi perché questi non fossero davvero “gli eroi più potenti della Terra”. Voglio dire, chi cazzo è Fante di Cuori? Dovrebbe essere la squadra con gli eroi più forti di tutti», ricordò Bendis in un pezzo celebrativo apparso su Comic Book Resources.

Così, quando propose l’inserimento di eroi di spicco come Wolverine e Spider-Man, «scoppiò il casino. Tutti pensavano che io e Mark fossimo due cretini che si divertivano a insultare il lavoro degli altri. La gente saltava sui tavoli urlandomi che Spider-Man non sarebbe mai stato un Vendicatore». L’inserimento di personaggi estranei alla tradizione dei Vendicatori (e la morte di alcuni storici) si mischiò poi al disinteresse per le storie passate e per la conservazione dello status quo.

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Nello scrivere gli Avengers, Bendis riportò l’accento sulle interazioni tra i supereroi in quanto persone, spingendosi fino ai dettagli più concreti (com’è fare colazione quando al tavolo ci sono un milionario, un alieno, un mutante e un ragazzino con i superpoteri?). La cornice da thriller in cui il punto focale della trama non stava nella scazzottata a fine albo ma nei vari misteri che si dipanavano tra i numeri fu poi l’ennesimo rifiuto di una concezione paternalistica, pedante e chiara a tutti i costi del genere. Un esempio a caso: New Avengers #11, costruito con un andirivieni tra piani temporali e contenente un falsa pista che a nulla serve se non a tenere desta l’attenzione dei lettori (ma c’è anche una sottilissima messa in scena della sordità di uno dei personaggi, Echo).

Con buona pace dei fan accaniti, Bendis pensava e progettava universi che fossero comprensibili dai neofiti perché aveva capito che lo zoccolo duro si sarebbe lamentato, avrebbe spedito lettere colme d’odio, ma non avrebbe mai smesso di leggere. Non era diverso dai tifosi sportivi: saranno sempre lì, pronti a esultare per i tuoi più grandi successi o a urlare contro i più fragorosi fallimenti, ma non abbandoneranno gli spalti tanto facilmente.

Le idee oltre le storie

L’era di Bendis alla Marvel non verrà ricordata (solo) per le sue storie. Tra i suoi contributi maggiori, c’è stato l’inedito approccio da mondo reale, necessario dopo gli eccessi degli anni Novanta. Non c’è una storia o una saga del Daredevil che tutti abbiano mandato a memoria, ma qualunque lettore saprebbe spiegare l’atmosfera e l’odore che quelle storie lasciavano addosso. E poi le idee e i personaggi che ha creato o riportato in auge. Jessica Jones, Luke Cage (colonne fondanti della Marvel televisiva), i Vendicatori come team all-star, Miles Morales come nuovo Uomo Ragno e l’idea stessa di crossover: non più una storia che si snoda su più testate ma più storie che sfociano in una miniserie “evento” (House of M, Secret Invasion, Assedio, Civil War II).

A lui si deve la ridefinizione totale di cosa fosse un fumetto supereroistico e di cosa dovesse essere per un lettore del Ventunesimo secolo (Ultimate Spider-Man). Autori successivi hanno fatto loro l’apertura di Bendis verso mosse commerciali e il suo disprezzo per le tradizioni, lungimirante è risultata la decisione di smantellare le astruse continuity e rimpacchettare concept vetusti in agili prodotti cripto-televisivi (New Avengers, Alias).

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C’è, in questo, un lato imprenditoriale che il Nostro non si è mai preso la briga di nascondere: «Una cosa che riesce male anche al migliore degli scrittori è gestire gli affari. Gli affari sono importanti quanto l’arte. Ogni giorno un titolo di giornale sarà dedicato alla pessima decisione commerciale di un autore o di un editore. L’arte e il commercio sono legati indissolubilmente. Vi considerate artisti? Crescete. State gestendo un’impresa».

Bendis contribuì con un diverso formato di scrittura, pescando più dalle parti di Aaron Sorkin e David Mamet che di Stan Lee: trattava la materia in maniera cinematografica, decomprimeva l’azione ed era sciolto nella giustapposizione spazio-temporale delle scene. Plasmava il tempo del racconto con incredibile precisione, snodando il dialogo su tavole fitte di vignette o su doppie splash-page in cui un lungo monologo poteva essere sfarinato in tanti piccoli pensieri, dando ritmo e dinamicità a pagine intere di gente che discuteva. Il problema, dicono i detrattori, è che non si capiva chi stesse parlando, perché in un fumetto di Bendis tutti parlavano come Bendis (e, d’altro canto, in una sceneggiatura di Sorkin tutti parlano come Sorkin).

La lavorazione naturalistica dei dialoghi (Grant Morrison nel suo Supergods parlava più di una «preoccupante verosomiglianza», che rendeva ogni voce una «melodia in un coro»), i singhiozzi del parlato, le (continue) ripetizioni sono le componenti che hanno reso il “Bendis-speak” un modello facile da motteggiare. Lo stesso Bendis ironizzava spesso sul tema e, parlando di un desiderato crossover inter-aziendale tra Batman e Devil, diceva che forse la gente non aveva voglia di vedere due tizi in costume parlottare per ventidue pagine nel buio della Bat-caverna.

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Un selfie postato il 2 agosto su Instagram per mostrare i risultati della dieta

Poco prima dell’annuncio della dipartita di Bendis, Paste ha fatto dialogare lo sceneggiatore con il fumettista e concept artist Geoff Darrow, che quest’anno è tornato stabilmente a fare fumetti con il suo Shaolin Cowboy. Il risultato è stata una conversazione in cui i due hanno discusso delle ansie del mestiere e di aneddoti salaci (come quella volta che Darrow si vide censurare da Charlie Hebdo un disegno di mostri che combattono per le strade di Parigi in cui un uomo esclama «È l’ultima volta che accetto un invito a cena da Marine Le Pen»).

Nel pezzo, Bendis affronta i suoi vezzi e vizi di scrittore, tra cui la tanto vituperata decompressione che lo portava a scrivere albi fatta quasi unicamente da splash page («scusate se vi ho appena mostrato l’immagine più fica che abbiate mai visto») o storie slabbrate per essere raccolte in volumi da libreria. La cosa non gli ha però impedito di confezionare racconti autoconclusivi degni di nota. I primi cicli di storie di Ultimate Spider-Man (ma ha tirato fuori qualcosa di buono anche da Ultimate X-Men, e non è poco) sono puntellati da una miriade di singoli numeri che mostrano tutta la sua bravura. Penso a Confessioni (Ultimate Spider-Man #13), in cui il lento svelamento dell’identità segreta di Peter Parker era avvolto da una patina sessuale e da una concretezza che rendevano i personaggi vivi sulla pagina.

«Sono colpevole come chiunque altro», risponde Bendis, raccontando che tempo fa Chris Bachalo si è lamentato delle interminabili sequenze di dialogo: «Mi diceva che se scrivevo dieci pagine in cui tre persone parlavano su un tetto a lui sarebbero servite tre settimane e mezza per disegnare quella scena. Il disegnatore avrebbe passato tre settimane e mezza bloccato su quel tetto senza la possibilità di muoversi».

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Nella conversazione con Darrow, Bendis dice che avrebbe parlato presto con i creativi della Marvel dei cambiamenti culturali attorno al fumetto: «Tutto della nostra cultura è cambiato. Il rapporto che il pubblico ha con questi personaggi, e non solo i supereroi, è cambiato. È completamente diverso. Eppure il settore si comporta come faceva 30, 20, 10 anni fa. Non facciamo niente di diverso, anche se tutto intorno a noi è cambiato, incluso il fatto che questi personaggi sono diventati di pubblico dominio. I fumetti stanno diventando il luogo meno importante in cui vivono. E questo non può accadere. Inizia e finisce con noi e penso che sia necessario guardare al formato del nostro prodotto, al prezzo, alle scadenze e chiederci “Che cosa stiamo sbagliando?”. È un problema se tutti hanno un loro show televisivo. E letteralmente tutti i miei amici hanno una serie tv basata su un loro fumetto. Be’, a questo punto allora chi li farà, i fumetti?».

Bendis l’aziendalista

Brian Michael Bendis è stato un aziendalista, un company man come lo è Geoff Johns per la DC. Non a caso, Bendis potrebbe finire a collaborare proprio con Johns all’universo cinematografico di Batman e Superman, in virtù del nuovo contratto «sfaccettato», come recita il comunicato stampa DC, che prevederebbe una collaborazione a tutto tondo nei settori televisivo-cinematografici (e, perché no, in quello videoludico, data la modica esperienza dello sceneggiatore nel campo dei giochi per consolle).

Sarebbe il riscatto ultimo verso un’industria, quella filmica, che lo aveva attirato a sé negli anni Novanta, se lo era masticato e lo aveva risputato disilluso e infelice del contatto col cinema, come si legge in Gloria e fortuna, il graphic novel autobiografico in cui raccontava gioie (poche) e dolori (molti) della macchina hollywoodiana.

Come Johns, Bendis ha introdotto eroi classici nella contemporaneità, e senza di lui «il fumetto di supereroi moderno non sarebbe lo stesso», come ha scritto Marco Spector su Nothing But Comics.

Ora che è giunto in DC, dimagrito e con il desiderio di assaggiare cose nuove per non ripetersi, Bendis si dice pieno di trepidazioni: «So che è stata la scelta giusta da fare. Non importa quanta paura avessi, so che è una paura positiva». Forse un indizio di questo cambiamento ce lo aveva dato in un’intervista del 2010: «La Justice League sarebbe molto interessante da scrivere. Ha un tono così diverso dagli Avengers. Ho molte idee sulla Justice League, ma le terrò per me, non voglio offrire un pranzo gratis agli altri!».

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