Lo sceneggiatore americano Jason Aaron sarà tra gli ospiti internazionali presenti a Lucca Comics and Games 2017 (dall’1 al 5 novembre).
C’è chi l’aura di hype se la deve costruire lavorando per anni – finendo spesso e volentieri per poi partorire il proverbiale topolino – e chi invece riesce a catturare l’attenzione di tutti spuntando praticamente dal nulla. Nel 2006 un giovane Jason Aaron, all’epoca impiegato presso un magazzino sperduto in Alabama, inoltra senza troppe speranze una proposta alla Vertigo per un western intitolato Scalphunter. Nel suo carniere d’autore un numero di Wolverine scritto dopo aver vinto un concorso e una miniserie a tema bellico candidata all’Eisner.
Sebbene per il pubblico il suo nome sia ancora quello di un emerito sconosciuto, gli editor DC Comics hanno l’esperienza e l’acume necessari per capire di avere a che fare con un tipetto destinato a diventare grande. Senza pensarci troppo prendono quell’idea inviata senza neppure passare per un agente e ne fanno una serie da trenta uscite. Nel frattempo si passa dal western classico al noir più nichilista, ambientato in una riserva indiana ai giorni nostri. Alle sceneggiature il barbuto cresciuto a Peckinpah e McCarthy, alle matite il serbo R.M. Guéra al suo debutto negli Stati Uniti. Nessuno se lo aspettava, ma la serie fa il botto.
Nel giro di un paio di numeri Aaron diventa il nome su cui cui scommettere tutto e Scalped il fumetto da leggere a ogni costo. I grandi nomi del comicdom non fanno che cosigliarla, e la DC pensa bene di mettere il primo numero in download gratuito. La scelta non è casuale. L’esordio di Dashiell “Dash” Bad Horse è il perfetto manuale su come conquistarsi al volo un lettore fedele. In un pugno di pagine vengono tratteggiati l’ambientazione e il clima che si respirerà in quella torrida cavalcata rosso sangue, ci sono parecchie linee di dialogo da mandare a memoria e, sopratutto, viene già svelata la vera identità del protagonista.
Si tratta di una tecnica pericolosissima, che funziona solo se si ha tra le mani un’idea abbastanza forte e non si hanno troppi timori di bruciarla al volo. In questo caso, seppure di originale ci sia ben poco, tutto funziona alla grande. Piuttosto che creare tensione nel lettore tirando per le lunghe la risoluzione del mistero, meglio mettere subito le carte in tavola e chiedersi quanto ci metteranno gli altri personaggi a capire come stiano in realtà le cose. E incominciare da subito a prevedere le disastrose conseguenze della scoperta.
Tutto sembra andare per il migliore dei versi e nessuno nota che c’è qualcosa di profondamente sbagliato nei paralleli che la critica tesse per parlare di Scalped. Invece di altri fumetti, i nomi che saltano fuori più spesso sono quelli dei Soprano o di The Wire. Che sono capolavori, sia chiaro, ma sono anche due serie TV. E qui casca l’asino.
Quella che in molti definiscono come l’ultima, vera hit della Vertigo è un’opera straordinaria, ma non un fumetto. Pensatela piuttosto come una versione illustrata della sceneggiatura per qualche produzione HBO. Non vogliamo dire che sia disegnata male o che la regia sia piatta. Solo non sfrutta nemmeno in minima parte le potenzialità del proprio mezzo.
Se si esclude qualche visione mistica di uno dei protagonisti, non c’è nessun passaggio che il cui funzionamento sia legato in maniera esclusiva al mezzo scelto per farla arrivare ai lettori. Che non significa per forza di cose infilare mostri, astronavi o altri effetti speciali in doppie splash page ultradettagliate. Significa piuttosto sfruttare la gabbia, il dosaggio dei particolari, lo scorrere delle pagine o il cambio di stile del disegno per rafforzare quanto detto dalle parole. Se non sostituirle direttamente.
I miei sono solo esempi basilari, non siamo certo in zona Chris Ware, ma sono comunque cose che in Scalped non si vedono neppure da lontano. Il massimo a cui posiamo aspirare è un montaggio alternato o qualche didascalia che rivela i veri pensieri dei protagonisti rispetto a quanto contenuto nei balloon.
Se volessimo vivisezionare elemento per elemento questa serie, ci sarebbe ben poco da criticare. I disegni di Guéra, sopratutto dopo qualche numero di rodaggio, raggiungono vette incredibili. Le fisionomie – anche se leggermente ballerine – paiono scolpite nella roccia, e il mondo alle loro spalle è così concreto da sentirne quasi gli odori. I colori di Giulia Brusco sono semplicemente perfetti, non sbagliano un colpo e si asciugano attorno a una paletta che è l’autentica spina dorsale di tutta l’estetica della serie.
Eppure, nonostante questo dispiegamento di mezzi, tutto ruota attorno alle parole battute da Aaron sulla sua tastiera. I dialoghi la fanno da padrone e la sceneggiatura finisce per avere la meglio su tutte le altre voci. Per nostra fortuna lo scrittore è un talento puro, e in mano sua anche una sorta di storyboard di lusso finisce per essere una delle migliori letture della scorsa decade. Sopratutto se ci si ferma al numero 34 sui 60 totali.
Come abbiamo già detto, nelle intenzioni degli autori la serie si sarebbe dovuta concludere alla trestesima uscita, sebbene per tirare le fila di tutti gli archi narrativi aperti sia sia deciso di sforare inizialmente fino al numero 34. I frutti di una pianificazione maturata con tutta calma dal giorno della proposta del pitch fino al debutto nelle fumetterie sono palesi. La prima metà di Scalped è un treno in corsa che travolge in pieno. Non un attimo di pausa, non una pagina fuori posto, non un’uscita di registro.
Non ho idea se le cose nelle riserve indiane girino davvero in quella maniera, ma l’impressione è di essere lì. Di respirare la mancanza di speranza e di prospettive di un popolo allo sbando, sebbene ancora capace di conservare tradizioni tanto nobili quanto antiche. Il tema più importante di tutta l’opera – esclusa naturalmente la famiglia e le sue derive, autentico cuore di tutta la narrativa popolare statunitense – è la dualità di ogni aspetto della vita. Ogni singolo personaggio è sballottato da un estremo all’altro della sua personalità: c’è chi vuole sfuggire dalla riserva ma non può fare a meno di tornarci, chi odia stare solo ma non fa che allontanare chiunque, chi è temuto da tutti ma ha sopratutto paura di se stesso.
In mezzo a tutte queste personalità divise l’unico che ha la lucidità di capire cosa stia succedendo è il capo tribù Lincoln Red Crow. Se nella sinossi dei volumi leggete che il protagonista della vicenda è Dashiell “Dash” Bad Horse… be’, vi stanno prendendo in giro. Certo, al centro di tutto c’è sempre lui e la narrazione ruota attorno ai suoi drammi, ma rispetto al carisma e alla capacità di mangiarsi la pagina del leader della riserva è un nulla.
Anni di post-modernismo coatto ci hanno fatto credere che un vero duro debba sempre sputare una battuta accendendosi una sigaretta, magari esibendo un certo machismo da quattro soldi e una sicurezza da uomo vissuto. Aaron pensa bene di accantonare certe sciocchezze e pesca dalla narrativa di frontiera, regalandoci un tizio duro come il cuoio, cresciuto a cinghiate sotto la pianta dei piedi e ben consapevole che un uomo deve semplicemente fare quello che deve fare. Poco importa se questo costerà la sua anima.
Red Crow è un mafioso pronto a tutto, ma è l’unico in grado di portare denaro (seppure sporchissimo) alla sua gente. Uccide senza pietà, ma non tradisce nessun patto stretto con un altro lakota. Non ha sentimenti eppure ha amato moltissimo. Ha la consistenza del granito e al contempo la forza di tornare sui suoi passi e buttare tutto all’aria. Lo adorerete e vi perderete nelle mille sfaccettature della sua personalità.
Ma poi cosa succede dal 35 in poi? Succede che il magazzino di idee è vuoto e le cose bisogna incominciare scriverle più in fretta. Nel dover improvvisare nuovi archi narrativi qualcosa si inceppa. La qualità è sempre alta, la trama generale procede in maniera abbastanza coerente, gli inevitabili numeri cuscinetto sono tutto sommato accettabili, ma la coesione comincia a sfaldarsi. I personaggi tendono a girare su loro stessi e quell’atmosfera gravosa da apocalisse imminente – dettata da una scansione degli eventi perfetta, sopratutto nella distribuzione di uscita in uscita – va a perdersi
Nulla di disastroso, sia chiaro, ma la classe dell’avvio era di un altro campionato. Sebbene i nuovi archi siano tutti legati fra di loro, l’impressione è di essere di fronte a tante vicende slegate, e l’atteso confronto finale non ha la forza dirompente che ci si aspettava. Sopratutto in confronto alla chiusura della prima metà della serie.
Scalped è il grande amore di Aaron, ne siamo certi. Ma è palese come in questo momento tutta la sua attenzione sia indirizzata a scalare le gerarchie della Marvel, per cui ha appena firmato, fino a diventarne uno dei principali architetti. E, in tutta sincerità, dubito che qualcuno sia nella posizione di fargliene una colpa.
Anche al netto di questo calo – che è meno grave di quanto le mie parole possano aver trasmesso, ve lo assicuro – Scalped rimane una serie da recuperare a tutti i costi. Non è un gran fumetto in senso stretto, ma è narrazione a stelle e strisce di grana finissima. Dentro ci troverete tutto quello che ancora oggi ci fa amare l’Aaron extra-supereroi: la tempra di uomini cresciuti preparandosi al peggio e il terrore dell’ignoranza più bestiale. Il tutto immerso in quella provincia che ha visto nascere e crescere lo sceneggiatore.
Sebbene non siano sfruttate a dovere, le tavole di Guerà e Brusco sono grandiose e qualche copertina di Jock rimane a oggi davvero buona. Non c’è capacità immagnifica, o amore per certa grandeur che ha fatto grande il western (anche moderno), ma non sarò certo io a fare il difficile davanti a battute come «Tutto quello che devi sapere, ragazzo, è che qui intorno… io sono il padre, il figlio e il fottuto spirito santo. Riuniti tutti insieme».