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“La Bella e la Bestia”, la recensione

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A cavallo tra il Sei e il Settecento una dama si muoveva con eleganza. Era Gabrielle-Suzanne Barbot de Villeneuve, nata nel 1685 e passata a miglior vita nel 1755. Parigina di nascita (vi passò tutta la vita) la famiglia di Madam de Villeneuve era tuttavia di La Rochelle: ricchissima, protestante, mal maritata, chiese la separazione dal consorte spendaccione dopo soli sei mesi e rimase vedova a 26 anni. Nonostante le misure di contenimento, il suo ragguardevole patrimonio era minato e presto finì. Dovette persino mettersi a lavorare, tanto i mezzi di sostentamento le vennero a mancare. Ma, essendo donna di cultura, trovò di che impegnarsi con il commediografo Prosper Jolyot de Crébillon padre, con il quale convisse per quasi trent’anni. Una bella storia d’amore, di quelle che solo morte (di lei) li separi.

bella bestia

Nella temperie culturale di questa vita artistica e non priva però di mondanità e soddisfazioni, cominciò a scrivere storie di fate e storie per bambini. Varie opere che ebbero anche una certa fortuna, compresa la raccolta di racconti La Jeune Américaine ou les Contes marins del 1740. Al suo interno, un racconto in particolare: La Belle et la Bête, una fiaba tradizionale che prese quasi vita propria. Venne pubblicata in altre edizioni, riscritta, riadattata, poi tradotta in altre lingue tra le quali l’inglese. In qualche modo la storia affronta una delle grandi trame che viaggiano per l’Europa medievale: Zémire et Azor ne è un’altra versione e il racconto contiene comunque elementi magici e mistici: il principe condannato per la grettezza del suo cuore a trasformarsi in una bestia (piuttosto orrenda) sino a che una fanciulla pura di cuore non lo ami e gli faccia scoprire l’amore. La rosa. Il castello incantato. La solitudine. Il ghiaccio.

La storia ha mille variazioni, che dipendono dal modo con il quale si è fatta strada attraverso i secoli, anzi i millenni perché, secondo gli studiosi del settore, la storia ha almeno quattromila anni. Non poteva sfuggire all’orecchio di Walt Disney. Cioè, dei suoi eredi, perché quando viene messo in pista il cartone animato lo zio Walt è già morto da tempo. In realtà il film l’aveva probabilmente visto, perché tra le varie versioni cinematografiche c’era quella del 1946, di Jean Cocteau, con Jean Marais nella parte della Bestia e Josette Day in quella della Bella. A cui fa seguito anche un musical, nel 1987.

La versione a cartoni animati del 1991 firmata da Kirk Wise e Gary Trousdale arriva in un momento particolare della storia dell’azienda, in crisi e alla ricerca di una identità spirituale che le consenta di ricominciare a fare quei film animati potenti che aveva prodotto in passato. È il colpo di coda: si tratta del primo film a cartoni animati ad essere candidato all’Oscar come miglior film (non lo vincerà ma ne avrà altri due “di consolazione”) e tutto sommato ancora oggi lo possiamo considerare un buon lavoro. Tra le note tecniche, ha una delle primissime scene in computer grafica di Hollywood: la scena del ballo tra Belle e la Bestia, dove il piroettare della coppia si trasforma in un delirio di bit scintillante e rutilanti.

La Bestia è il vero protagonista, caratterizzato in maniera spaventosa, simpatica, triste, gioviale al tempo stesso. È un personaggio Disney di spessore, che trova la consolazione e lenimento delle sue pene tra le braccia di una giovane donna, Belle, che entra a buon diritto nella seconda fila delle principesse Disney: è una donna giovane, bella, accogliente ma complementare. Non è una vera ribelle, non è un’iconoclasta: vuole semplicemente crescere quanto basta per uscire dalla casa del padre e andare nel castello del marito, ingenua spoletta del patriarcato dominante e santificato dal rito contrattuale del matrimonio d’amore.

La storia è una delle vittime esemplari del disincanto postmoderno, oltretutto, perché segna il passaggio da un’epoca fatta di innocenza e tecnica di animazione “manuale” a una in cui colorazione e animazione diventano appannaggio del computer. Il tratto folle e psichedelico degli anni Sessanta e primi Settanta della Disney, poi lentamente tramontato per tutti gli anni Ottanta, qui torna rotondo e con una personalità, coloriture e campiture diverse, lontane.

Veniamo a noi: il nuovo La Bella e la Bestia è quanto di più lontano si possa immaginare da tutto ciò. È un film “live action” e la Bella è interpretata da Emma Watson, la giovane attrice inglese che, da adolescente carina in dieci e più anni di Harry Potter, si è trasformata in quasi trentenne dai tratti adolescenziali ma dalla carica erotica non indifferente. Che lei però azzera completamente, vagando per il set con un sorriso inespugnabile dalle miserie della vita e dagli spaventi della Bestia, oltre a tutto il corredo spaventoso di castelli immersi nella neve di giugno, lupi affamati, suppellettili animate, bambini trasformati in tazze da té e donne di colore di tutte le età mutate in piumini per la polvere o guardaroba a rotelle. C’è di che farsi perseguire dalla maggior parte delle associazioni americane, senza contare che tutti personaggi “buoni” della provincia francese sono quelli di colore (nel Settecento??) mentre i villici e gli ex militari (il perfido spasimante Gaston) sono cattivi in cerca di redenzione o di una fine orrenda.

Non apriamo poi il capitolo su un personaggio neanche-troppo-cripto-gay (il primo per la Disney, ma se lo potevano anche risparmiare, visto come lo usano), che dà il colore della farsa a quella che è una tragedia cinematografica e occhieggia con tempismo perfetto l’America contemporanea: trumpista, suprematista e omofoba. In un angolo, sicuramente scioccato dalle battute che gli assistenti gli passano pochi attimi prima di girare le sue scene (altrimenti non si spiega) c’è Kevin Kline. Forse una penale troppo elevata o magari il bisogno urgente di soldi sono i motivi che gli hanno impedito di abbandonare il set, chi può dirlo.

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Nel cast ci sono anche altri pezzi da novanta, come Emma Thompson e Ewan McGregor, ma fanno la parte di teiere o candelabri animati dal computer e quindi valgono più come doppiatori che altro. Inquietante la figura della Bestia, animata e vocalizzata da Dan Stevens (attore già cortesemente antipatico in Downton Abbey), è ridotta a oggetto inespressivo, schiacciato anche dall’attaccapanni e dal cagnolino-poggiapiedi.

Si muove leggero invece l’unico lato che in Italia non potremo assaporare, cioè quello musicale. Perché, mentre da noi c’è al consueta performance alla X Factor con voci malamente educate al canto, negli Usa viene fuori una Emma Watson che sa cosa fa quando canta e c’è. Non ha neanche un grammo di Julie Andrews che, secondo me se la ride compiaciuta dal suo “buen retiro”, consapevole che anche questa generazione non riuscirà a scalzarla dal trono di vera regina dei musical “live action” della Disney.

A me nessuno renderà le quasi due ore che ho passato sepolto in una poltrona al cinema, ipnotizzato dal fenomeno kitsch dell’anno, un film che vaga come un missile accecato in cerca di un bersaglio mentre in realtà si sta perdendo inesorabilmente sull’Oceano. Non vi spaventerà, non vi commuoverà, non vi farà ridere di cuore, non vi farà venire dubbi sullo status quo: è tutto perfetto, tutti bravissimi, c’è tecnica e professionalità da suicidarsi con un colpo di spazzolino da denti su per la narice, però non basta. Dov’è la polverina magica? L’ingrediente segreto? Come le “verdure senz’anima” del ristorante cinese: verdi e fragranti fuori, completamente vuote dentro.

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Antonio Dini, giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. Ha un blog dal 2002: Il posto di Antonio. Il suo canale Telegram si chiama: Mostly, I Write.

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