In occasione della mostra Sconfini di Lorenzo Mattotti (a Passariano di Codroipo, Udine dal 29 ottobre 2016 al 19 marzo 2017), #logosedizioni ha pubblicato un catalogo molto particolare. Sconfini è un libro che fonde la necessità di raccogliere i contenuti di una mostra “sconfinata” (permettiamoci il gioco di parole) e onnicomprensiva dell’opera di Mattotti con la realizzazione di un volume godibile anche al di fuori dell’esposizione. Il libro contiene, oltre a immagini selezionate e commentate, saggi su tutte le opere principali e una lunga intervista all’autore, condotta da David Rosenberg e Michel-Édouard Leclerc (curatore e direttore della mostra).
Dell’intervista riproponiamo qui un corposo estratto per gentile concessione dell’editore, in attesa dell’uscita durante questo mese del nuovo libro di Mattotti, Ghirlanda (ne abbiamo pubblicato QUI una anteprima).
Lei è a un tempo autore, illustratore, pittore, regista. Le sue immagini hanno valenze diverse a seconda dei casi. Sono pochi gli artisti della nona arte in grado di riunire tante forme espressive. Come riesce a lavorare di volta in volta, o contemporaneamente, per un periodico come il New Yorker o una rivista di moda come Vanity, all’illustrazione di un romanzo o di un brano musicale, a praticare la pittura o il disegno?
Devo ammettere umilmente che questa varietà è legata alla mia storia, e prima di tutto alla constatazione della mia iniziale ignoranza. Quando ho cominciato, volevo fare il disegnatore di fumetti. A poco a poco, mi sono diretto verso altre forme figurative.
È un autodidatta?
Non ho una vera e propria formazione da disegnatore, ma ho comunque frequentato una facoltà di architettura. Ho studiato la geometria, la matematica, la prospettiva ma anche, e soprattutto, la storia dell’arte, aprendomi così a una vasta cultura umanistica. Ho studiato a Venezia, una città che mi ha nutrito. È lì che ho appreso la contemplazione solitaria, la forza della luce e i rapporti plastici tra gli elementi. Sono sempre stato pronto a disegnare su qualsiasi tipo di supporto.
Che si tratti di esperimenti autonomi o di lavori commissionati dagli editori, ho sempre considerato una fortuna il fatto di potermi misurare con nuovi ambiti. Ciò che mi interessa e mi appassiona è la tecnica, non la definizione di artista che questa implica. Termini come pittore, artista plastico, disegnatore, illustratore rimandano per quanto mi riguarda alle tecniche utilizzate nelle opere, ma non valgono a definire un artista; certo, a volte capita di arrabbiarsi e di rammaricarsi perché la critica d’arte tende a ingabbiarci in queste definizioni.
È vero che lei stesso, quando si riferisce a un artista, non lo classifica mai, non fa necessariamente riferimento al genere o al supporto sul quale lavora?
Sì, sì, è una cosa fondamentale. Certe classificazioni rispecchiano soltanto lo sguardo della società, che spesso è riduttivo. Io rifiuto questa gerarchia. Tenga presente, però, che da adolescente la mia ambizione era fare fumetti per comunicare con gli altri. Si trattava di una scelta forte sul piano culturale e sociale, volevo partecipare a quel movimento importante che allora era agli esordi e stava facendo saltare i codici del fumetto in Italia. Personalmente, ho un percorso da artigiano. Oggi gli artisti tendono a evitare questo termine, ma nel mio caso funziona, descrive bene ciò che faccio. Per tutta la vita sono stato ossessionato dall’idea di imparare un mestiere, volevo che mi desse da vivere, ho cercato di imparare tutte le tecniche, tutte le sfaccettature, e ogni volta che guardavo la copertina di un disco, un dipinto, una vignetta satirica, era per integrare la competenza dell’artista alla mia personale pratica. Sì, rivendico i miei esordi sperimentali e la mia progressiva evoluzione. Non avendo compiuto studi artistici, ho dovuto capire da solo come erano fatte le opere.
Certo, nel mio viaggio personale – dato che sono riuscito ad assimilare le opere del passato e le competenze che hanno richiesto – ora posso lasciarmi andare, creare e inventare un’opera forte. Fin dai primi tempi ho cercato, nella mia arte, di spingere i linguaggi grafici e le tecniche fino ai loro limiti. Ma, mentre alcuni sapevano fin dall’inizio dove volevano andare, mentre altri subordinavano il proprio lavoro a un obiettivo politico o difendevano la propria adesione a una scuola o a un manifesto, io ho sempre cercato di essere prima di tutto un buon tecnico, un buon artista, un buon fumettista, per poi andare oltre. Così ho copiato, ho cercato, ho seguito varie piste e poi, a poco a poco, ho insistito fino a rendere miei di volta in volta un colore, una musica, un tono, e solo allora, al termine del percorso, è apparso un universo personale e coerente.
Per lei è dunque molto importante sottolineare l’influenza dei suoi predecessori, dei grandi maestri dell’arte o dei suoi amici?
Non userei il termine “sottolineare”. È una realtà, un dato di fatto. Mi sono imposto una forma di disciplina e per molto tempo tutto ciò che iniziavo a fare è stato legato a quei riferimenti. È così strano? Perché dovremmo essere tanto orgogliosi da dimenticare le opere del passato? Grandi artisti come David Hockney o Picasso hanno spiegato quale fosse il loro debito verso i propri predecessori.
Nell’Italia degli anni Ottanta quali erano le sue letture preferite, gli artisti emblematici che la ispiravano?
All’età di tredici o quattordici anni, traevo ispirazione dalle opere che alcuni disegnatori italiani come Lino Landolfi o Dino Battaglia, ma anche Uderzo in Francia, realizzavano in quel periodo. Mi esercitavo a copiarli, creando a poco a poco, per via d’imitazione, universi umoristici personali, talvolta persino grotteschi. Certo, leggevo qualunque cosa mi capitasse sotto mano e adoravo tutte quelle pubblicazioni che, dai fumetti italiani al Sergente Kirk (pubblicato da Florenzo Ivaldi), mi avrebbero fatto scoprire gli svariati universi del fumetto francofono, italiano, americano.
Negli anni Ottanta rimasi completamente sconvolto da un incontro a Milano con Carlos Sampayo e José Muñoz. Entrambi avevano un modo molto soggettivo di raccontare una storia: con loro, disegnatore e sceneggiatore entravano in qualche modo a far parte della narrazione e il tratto diventava nervoso, meno stereotipato. Mentre io mi ero esercitato a realizzare strisce o tavole che definirei accademiche, quei sudamericani – a cui andrebbe aggiunto il mio grande maestro Alberto Breccia, ma anche il figlio Enrique Breccia, con riferimento ai primi lavori – inventavano una scrittura grafica apertamente espressionista. Scoprirli è stato per me uno shock culturale pari a quello che mi ha provocato un altro grande del fumetto francese, Philippe Druillet con Lone Sloane.
È soltanto dall’età di trent’anni che ha cominciato a realizzare illustrazioni per la moda, manifesti come quelli per il Festival di Cannes, copertine di riviste, disegni di grande formato…
Fino alla pubblicazione di Fuochi, nel 1984, lavoravo soltanto sul fumetto. Ma dovevo guadagnarmi da vivere, ed è il mestiere di illustratore che mi ha garantito i migliori introiti. Così non ho disdegnato i lavori su commissione. Fin dall’adolescenza ho realizzato manifesti per venderli; all’inizio si trattava di poster un po’ psichedelici che vendevo ai concerti, poi sono passato a manifesti di grande formato, con immagini di ampie dimensioni realizzate con estrema libertà, finché un giorno, grazie agli amici del gruppo Valvoline, mi è stato proposto di realizzare disegni di moda per la rivista Vanity. Si trattava di esprimere e illustrare l’universo, l’atmosfera della moda e dei suoi creatori. Erano stati interpellati diversi disegnatori. Io mi sono ispirato ai disegni molto stilizzati degli anni Trenta. A partire da quei modelli, estremamente espressivi, ho prodotto una serie di lavori molto colorati, molto vivaci, che sono stati pubblicati a partire dal 1984.
Si può dire che è da questo momento che smette di essere soltanto un fumettista? Con quei disegni per Vanity ha ottenuto un grande successo.
Il mio primo lavoro per Vanity era stato commissionato per un numero speciale della rivista in cui diversi disegnatori di fumetti d’avanguardia erano stati invitati a realizzare un’opera sulla moda del decennio. Vi partecipavano tutti i disegnatori del gruppo Valvoline, ma anche Charles Burns o Liberatore, per citare soltanto due nomi. Per loro, come per me, si trattava di un’esperienza nuova. Ho pensato immediatamente che avrei dovuto mettere l’abito al centro dell’immagine e che questa avrebbe dovuto valorizzarne la forma, i tessuti, i colori.
Ho fatto qualche ricerca tra i disegni pubblicati su Vogue negli anni Trenta, ho studiato la tecnica di Erté (Harper’s Bazaar) e di altri artisti fino agli anni Quaranta. Quando ho consegnato i primi disegni, il direttore artistico di Vanity, Alberto Nodolini, mi ha proposto di lavorare alle copertine della rivista. È stato un vero successo, che ha dato il via a una collaborazione a pieno ritmo con tutta la redazione ma è stata soprattutto una formidabile scoperta personale. Ispirandomi al lavoro svolto per Fuochi o Il signor Spartaco, riscoprivo quanto un disegno potesse essere ricco, completo, complesso. Inoltre, per Vanity avevo bisogno soltanto di un’immagine alla volta, senza dovermi preoccupare degli aspetti narrativi o della collaborazione con uno sceneggiatore o un tecnico. Ho provato un senso di liberazione, di gioiosa leggerezza. È stato allora che ho capito che il fumetto era stato il migliore degli apprendistati e che quest’arte poteva aprire molte altre porte sul piano grafico e professionale.
L’albo Fuochi (1984) ha destabilizzato il mondo del fumetto. All’epoca gli autori che lavoravano colorando direttamente le tavole erano pochissimi. Il suo albo, invece, offriva un’esplosione cromatica.
Avevo realizzato i primi disegni dopo aver visto Fitzcarraldo, di Werner Herzog. Vi ricordate quel battello bianco nell’intrico della foresta amazzonica? Volevo esprimere una specie di shock visivo: il battello, molto lineare, con il suo corpo fisico e tecnologico, si contrapponeva alla foresta e soprattutto alla montagna, creando un contrasto brutale. C’era anche il problema del rapporto di proporzione tra le masse. Ben presto ho pensato a grandi macchie colorate. La magia è nata dalla contrapposizione tra il tratto e la densità del colore. Lo stesso effetto prodotto dal contrasto tra il disegno del battello e l’isola. Non potevo rinchiudere quelle forme dietro un tratto troppo striminzito. L’uso del colore, in macchie molto dense o in trasparenza, ha creato un senso di profondità e, per me, di libertà. La forza espressiva di Fuochi dipende in gran parte dall’uso della materia pittorica. I colori non si limitavano a illustrare: simboleggiavano uno stato, si trasformavano in un linguaggio, un codice emotivo oltre che pittorico.