Quello che tutti sanno, innanzitutto: Wonder Woman compare per la prima volta sulle pagine di All Star Comics #8 nel 1941. Disegnata da Harry George Peter, l’eroina è, com’è noto, una creazione di Charles Moulton, pseudonimo dello psicologo William Moulton Marston. Fin dalle prime storie Wonder Woman ha in dotazione due tipi di armi. Un paio di braccialetti indistruttibili, ispirati a quelli che amava indossare Olive Byrne, segretaria e amante di Marston; e (da giugno del ’42, su Sensation Comics #6) un lazo d’oro che annulla la volontà e costringe chi vi è legato a dire la verità.
Quello che non sanno in molti, invece, è che quest’ultima arma potenzialmente devastante ha in realtà un precedente ‘scientifico’. Qualche anno prima, infatti, il dottor Marston aveva realizzato un poligrafo. Ovverossia quel dispositivo di misurazione dei comportamenti fisiologici che è comunemente noto come macchina della verità.
Come racconta Tim Hanley in Wonder Woman Unbound, intorno al 1913 Marston lavora come ricercatore a Harvard nella facoltà di psicologia. È impegnato a capire come rilevare nelle persone la capacità di mentire. Si rende ben presto conto che è impossibile dire una bugia senza fare uno sforzo fisico, per quanto impercettibile. Ma deve alla sua fidanzata e futura moglie Elizabeth Holloway, che lavora con lui al progetto, l’intuizione definitiva: soprattutto quando la fa arrabbiare, nota che l’alterazione del suo stato d’animo comporta delle variazioni della pressione sanguigna. Marston pensa quindi a un macchinario che sfrutti il meccanismo di uno sfigmomanometro, ossia un misuratore di pressione arteriosa. Fa numerosi esperimenti e alla fine l’apparecchio si mostra in grado di rilevare le bugie 103 volte su 107. Lo studio gli vale il dottorato, e sui giornali Marston viene additato come “l’inventore della macchina della verità”.
Il dottor Marston crede moltissimo nella propria invenzione. Nel 1922 viene interpellato dai legali di James Alphonso Frye. Il loro cliente ha confessato un omicidio ed è stato condannato, ma ha deciso di ritrattare e ricorrere in appello. Il poligrafo di Marston può dimostrare che la sua precedente confessione non è vera e quindi sostenere le sue pretese di innocenza. Lo psicologo decide di svolgere la consulenza gratuitamente, pur di cogliere la grande occasione. Sottopone quindi l’imputato al test, con un esito più che positivo, e fornisce alla corte tutta la documentazione di cui dispone per ribadire la scientificità della procedura.
Tuttavia, dopo un’attenta valutazione, la corte decide di non considerare il test della macchina della verità una prova scientifica. Afferma infatti di non poter ammettere in tribunale delle prove fornite da procedure che non sono accettate dalla comunità scientifica. Dal momento che la macchina della verità desta parecchie perplessità, il test e il parere scientifico del dottor Marston non sono ritenuti attendibili. La decisione della corte diventerà un paradigma per molti altri casi simili – tanto che ancora oggi si parla di Frye standard quando si discute dell’ammissione di evidenze scientifiche in un tribunale americano.
Il parere contrario registrato nel caso Frye mina la credibilità del dottor Marston. Ma lo psicologo pensa bene di sfruttare gli strascichi del processo per accrescere la notorietà sua e delle sue teorie. Organizza quindi numerose (e discutibili) dimostrazioni pubbliche del funzionamento della macchina della verità. Per esempio, nel 1928 all’Embassy Theatre di New York sottopone al test le ragazze presenti, sostenendo che la personalità di una donna dipende dal colore dei capelli e decretando che le more amano le emozioni forti, mentre le bionde sono più passive – Sic! Non contento, lo psicologo prende parte anche a diversi eventi pubblicitari in cui mette a confronto prodotti di marche diverse. Chiede ai presenti di provarli e, con la macchina della verità, dimostra la superiorità di una marca sull’altra.
Celebre la vicenda delle lamette da barba Gillette. Dopo la ‘certificazione di qualità’ ottenuta col poligrafo di Marston, l’azienda pensa di usare la stessa trovata pubblicitaria anche alla radio. Il dottor Marston chiede il supporto del suo protetto John Larson, che a Berkeley stava perfezionando il poligrafo. Larson accetta di farsi coinvolgere in forma anonima, per non compromettere la propria integrità scientifica. Fa un test analogo a quello di Marston, ma con la sua macchina della verità non rileva nessun tipo di preferenza verso le lamette Gilette. Marston gli offre un bel po’ di soldi per ‘ritoccare’ il risultato, ma Larson manda all’aria la campagna e addirittura segnala il suo vecchio mentore all’FBI. Del resto, Larson non mira al successo di pubblico: è un ufficiale di polizia e ha l’ambizione di inserire il suo test al poligrafo nella routine degli interrogatori in commissariato.
Marston non demorde. Continua a scrivere sull’argomento, spesso su riviste femminili, nonostante il disprezzo crescente della comunità scientifica. Nel 1938 tira le somme del suo lavoro con la macchina della verità in The Lie Detector Test. Nel libro, atteggiandosi a guru, vagheggia un’America più onesta e leale, in cui tutti si sottopongono periodicamente al test della macchina della verità. Un’America in cui «dire la verità sarà importante quanto vestirsi bene o lavarsi la faccia e le mani prima di andare a una festa o in ufficio».
Nel 1940 la carriera di Marston prende una piega diversa. A seguito di un’intervista in cui lo psicologo dichiara che i fumetti hanno un grande potenziale educativo, viene contattato dall’editore Max Gaines che gli chiede di creare un nuovo supereroe. Seguendo un altro prezioso suggerimento della moglie, Marston pensa a una supereroina.
L’ossessione per la verità che aveva coltivato nel suo percorso (para)scientifico sembra trovare un’ulteriore espressione proprio nel Lasso of Truth di Wonder Woman. Certo, nei fumetti il lazo è molto più di un poligrafo: è ricavato dalla cintura di Afrodite e consente di esercitare un controllo mentale su chi vi è legato. Ha un potere talmente grande che è capace di soggiogare la stessa Wonder Woman – cosa che accade varie volte quando i nemici lo rubano per usarlo contro di lei. Nelle intenzioni di Marston, il lazo è una metafora dell’arma che solo le donne hanno e possono usare:
Il lazo magico [di Wonder Woman] è semplicemente il simbolo del sex appeal e del fascino femminile. Ogni donna usa questo potere sulle persone che vuole influenzare o in qualche modo controllare, siano esse donne o uomini. Una donna comune non maneggia un lazo ma si serve di parole, sguardi, gesti, risate e atteggiamenti vivaci. Se ha una buona mira, cattura l’attenzione della sua potenziale vittima e la tiene avvinta con il suo fascino.
Qualsiasi donna può essere Wonder Woman e lottare contro i cattivi. Non ha bisogno di armi divine o tecnologiche, deve solo essere consapevole del suo fascino. Stando al parere dell’autorevole – diciamo così – dottor Marston.
Il lazo dorato si è col tempo evoluto insieme con Wonder Woman, andando ben oltre la definizione del suo creatore. Con la trasformazione dell’immaginario DC Comics in epoca post-Crisis, diventa un’arma ancora più potente e sfaccettata. Nella versione di George Pérez (che a partire dal 1985 rivitalizza e, per molti versi, reinventa la supereroina) il lazo proviene da una delle due cinture della dea della Terra Gea, realizzate da Efesto e donate alle due regine amazzoni, Ippolita e Antiope, per renderle più forti. È indistruttibile e capace di allungarsi all’infinito. Illuminato dal fuoco della dea Estia, assume infine il potere di far dire la verità e la caratteristica di brillare al buio. L’arma così potenziata consente alla principessa amazzone di fare cose straordinarie, come per esempio riportare alla ragione il crudele dio della guerra Ares, in procinto di scatenare una Terza guerra mondiale; contenere l’esplosione di due bombe atomiche per salvare la Russia; restituire i ricordi a Donna Troy, che per una maledizione di Dark Angel era costretta a vivere mille vite piene di dolore e sofferenza.
In una minisaga di Justice League of America (#62-64, The Golden Perfect, di Joe Kelly e Doug Mahnke) si va addirittura oltre. Durante un combattimento Wonder Woman rompe il lazo, producendo un’alterazione nella realtà: la verità oggettiva viene gradualmente sostituita dall’idea soggettiva che le persone hanno, in un processo che stravolge le leggi scientifiche e persino la consistenza fisica di oggetti e persone. Quando la Terra è ormai diventata piatta e Batman sta per scomparire e diventare letteralmente una leggenda metropolitana, Wonder Woman trova il modo di aggiustare il suo lazo e far trionfare la verità. Un lieto fine che sarebbe sicuramente piaciuto al dottor Marston.