Siete un giovane scrittore di soli ventisei anni. Seppure il vostro sogno rimanga quello di campare scrivendo fumetti, per adesso vi barcamenate con qualche lavoro da giornalista, relegando la scrittura creativa ai margini. Voi non lo sapete, ma tra meno di cinque anni diventerete una specie di rockstar. Il vostro nome sarà ovunque, i vostri lavori venderanno decine di migliaia di copie e segneranno un’epoca. Poi passerete alla prosa e le cose andranno ancora meglio. Arriverà il cinema, la televisione, il riconoscimento planetario come narratore di primissimo piano. In questa grigia seconda metà degli anni Ottanta non sospettate ancora di nulla di quello che sarà. Avete già scritto qualcosa, in verità nulla di davvero importante, e il futuro appare come tutto in divenire. Di cose da dire in testa ve ne girano un sacco, ma vi manca la certezza che qualcuno le voglia ascoltare. Un giorno come tanti ricevete una telefonata che definire inaspettata è il minimo:
Ehi, Neil, sono Alan. Senti, intendevo concludere Miracleman con il terzo libro e per il momento ho finito. Lui ha intenzione di creare il mondo perfetto in cui non ci sarà più criminalità, guerra, ingiustizia, povertà o una qualsiasi delle altre cose che normalmente definiscono una storia. Ti piacerebbe prenderlo in consegna? [N.B. La trascrizione della telefonata è reale, non stiamo inventando nulla]
Quell’Alan dall’altra parte della cornetta, voce profonda e idee strampalate, di cognome faceva Moore. Non era ancora QUEL Moore che oggi tutti veneriamo – mancava davvero pochissimo alla sua esplosione – ma in Inghilterra il suo nome era già piuttosto noto tra gli appassionati. La sua rilettura del supereroe classico Miracleman, creato da Mike Anglo nel 1954, ha generato un discreto buzz attorno alle pagine di Warrior, l’antologico che lo contiene. Si è addirittura arrivati a venderlo negli Stati Uniti, rendendolo di fatto uno dei primi germogli da cui la british invasion prenderà forma da qui a poco. Neanche a dirlo, lo adorate. Tra le altre cose che stentate a credere si potrebbe annoverare come, nel giro di vent’anni anni, passerete da anonimo ammiratore ad appartenente alla ristretta cerchia di invitati al suo matrimonio. Eppure, in questo giorno come tanti, nessuno dei due ha il sentore di cosa succederà nel giro di pochissimo tempo.
Quello che era certo era quanto fosse avanguardistico il lavoro di Moore su Miracleman. Superman sfruttava il suoi poteri di essere semidivino per debellare buffi criminali e mantenere segreta la sua identità da tenero imbranato. I superuomini dello scrittore inglese invece dimostravano quanto fosse labile, per qualcuno in grado di volare più veloce di un proiettile, la differenza tra il genocidio e lo sgrullarsi il cazzo dopo una bella pisciata. Ogni loro atto aveva conseguenze enormi perché potevano, letteralmente, tutto. L’ultimo ciclo di storie – il terzo libro della telefonata – si concludeva con 40.000 morti in una Londra devastata, un nuovo ordine mondiale messo in piedi senza neppure prendersi la briga di chiederci quanto fossimo d’accordo e la certezza che nulla sarebbe più stato come prima. A pensarci bene, non c’era nulla di troppo geniale in questa rilettura di un genere fino ad allora considerato – sebbene di dimostrazioni dell’assurdità del presupposto ce ne fossero a iosa – come ben poco adatto a riflessioni così profonde. Quella di Moore era una logica glaciale e spietata, basata sull’inarrestabile ciclo di causa-effetto portato su una scala del tutto nuova. Se uomini tutto sommato normali sono riusciti – e riescono tutt’ora – a cambiare il mondo in maniera indelebile, cosa potrebbe fare una divinità dotata di poteri quasi illimitati?
In un’intervista con Vulture, lo stesso Gaiman commentava come «Nei vecchi fumetti, come nelle vecchie sit-com, non importava quello che succedeva: all’inizio dell’episodio successivo si tornava allo status quo originale. Alan è stato il primo ad andare verso il “Non si può fare”. Se Superman esistesse, avrebbe cambiato il mondo». E effettivamente le cose andarono così, su qualsiasi piano la si voglia mettere. Cambiarono i personaggi dei fumetti, le loro avventure e i loro limiti. Alla stesso modo gli autori furono chiamati a sfidare trent’anni di convenzioni e facili scorciatoie. Sfortunatamente per Neil, si trovava nella posizione più scomoda possibile: oltre a gestire il bagaglio creativo e culturale di Moore in pieno fermento giovanile, doveva anche dare un seguito a una storia dotata di una conclusione straordinaria. Se in un mondo scompare ogni forma di conflitto – criminalità, guerra, ingiustizia – cosa rimane da raccontare? Ci risponde lo stesso autore: «L’idea è: siamo in un’utopia, vediamo che cosa ne pensano davvero le persone. Puoi privare Miracleman di un obiettivo. Lui è un dio, così a diventare interessanti sono storie come quella di cinque persone che vanno su una piramide per vederlo e chiedergli cose».
Nell’idea di Gaiman ci sarebbero dovuti essere tre cicli di storie, via via sempre più cupi. Per motivi di diritti e altre menate legali, sulla carta è arrivato solo il primo, denominato Golden Age. Negli Stati Uniti, a settembre dovrebbe uscire il secondo numero di Silver Age, rimandato per qualcosa come due decadi e ora pubblicato con il contagocce. Non tratteniamo il fiato per il terzo capitolo, quello più drammatico, visto che è l’unico di cui non esiste neppure una pagina disegnata.
Per ognuno dei sei numeri del primo arco, battezzato Golden Age vista la sua ambientazione utopica, finiamo per conoscere persone qualunque – con l’eccezione di un clone di Warhol costretto a vivere in un antro oscuro – impegnate a sopravvivere in un mondo straordinario. Hanno tutto, sono sicuri, liberi dalla schiavitù del denaro e della paura. Eppure non sono felici. Nessuno lo è in queste pagine. C’è chi si perde nella perfezione di questi esseri al di sopra di loro e decide di mettere in pausa la propria vita fino a quando non riuscirà a godere ancora di tale magnificenza. Chi ne mette al mondo uno e cerca uno straccio di normalità in una versione deforme e sottosopra del rapporto madre-figlia. Chi ha assistito al massacro di Londra e cerca di convivere con la visione bestiale di migliaia di innocenti tranciati da un alieno fuori controllo. Nel sesto numero, il magnanimo dio di questo ordine mondiale pensa di farci un bellissimo regalo permettendoci di librarci nel cielo, attaccati a palloncini gonfi di elio. Condivide con noi uno dei suoi poteri, ma non alle stesse condizioni. Come Mark Zuckerberg che apre un profilo Facebook, facendoci credere di non essere troppo diverso da noi. O almeno questo sarebbero pronti a giurare i suoi 66.773.919 amici. Miracleman ci tratta come tanti bambini ritardati, baloccandoci con un nuovo trucchetto mentre ci guarda dall’alto della sua piramide. Tronfio dietro il suo solito sorriso ricco di paternalismo.
Non esiste modo migliore per sintetizzare le idee di Gaiman per questa serie se non citando il comico statunitense Louis C.K. Era il 2008 e, ospite al Late Night with Conan O’Brien, il Nostro se ne usciva con una di quelle battute destinate a rimanere nella storia: «Tutto è incredibile e nessuno è felice». Esattamente il clima che si prova vivendo nel mondo raccontato in queste pagine. Sembrerebbe una cosa da nulla, ma in realtà è un cazzotto in pieno stomaco. Ai lettori e alle convenzioni narrative. Prendiamo un film come Mad Max: Fury Road. Ogni secondo è indirizzato a ricordandoci quanto disperato possa essere vivere in un mondo post-apocalittico. Si apre descrivendo un’umanità in ginocchio, dove un vecchio pustoloso tiene le ultime donne fertili rinchiuse in cassaforte, mentre esaltati pronti a cromarsi la bocca mantengono l’ordine e l’acqua diventa il bene più prezioso. Sembrerebbe tutto perduto, eppure il film si conclude con una festa e una nuova speranza. Gaiman non aveva il lusso di avere una china davanti ai suoi personaggi, ma solo una rilassante pianura dove nulla avviene senza un preavviso enorme.
La sua intuizione geniale è stato chiedersi: quanto saremmo davvero soddisfatti di vivere in un mondo simile? Riusciremmo a stare tranquilli con la certezza di non avere neppure più l’illusione di un minimo di controllo sugli eventi? E in effetti, sebbene in queste pagine non succeda nulla, il senso di minaccia è qualcosa di opprimente. Si ha l’impressione di osservare topi in gabbia, non persone libere. Come una versione del Mondo nuovo di Aldous Huxley senza quei terribili coni d’ombra che lo rendevano, tutto sommato, umano nel suo orribile pragmatismo. Qui non possiamo neppure odiare una classe superiore che ci tiene incatenati nell’unica, seppur piacevole, vita che abbiamo mai conosciuto. Perché chi ci ha messo in quella posizione non solo non ci mette limiti, ma si preoccupa anche di farci divertire con i palloncini durante una celebrazione per il nuovo corso dell’umanità. Come in Il Cerchio di Dave Eggers, dove la dirigenza di un colosso della Silicon Valley si preoccupava di quanto i suoi impiegati fossero sani, felici e dotati di frizzante vita sociale. Come se un’alternativa fosse disponibile.
Se queste pagine fossero state scritte e disegnate anche solo quattro o cinque anni dopo. sarebbero state un capolavoro assoluto. Non perché i tempi sarebbero stati più maturi per poterle comprendere appieno – ci saremmo trovati nei sinistramente positivi anni Novanta – ma perché i suoi autori avrebbero avuto il tempo di maturare e affinare i loro talenti. Sia Neil Gaiman che Mark Buckingham versarono lacrime e sangue per rendere ogni pagina del loro Miracleman qualcosa di speciale, ma la loro carica giovanile non era commisurata ai mezzi necessari per dare una forma definitiva alle loro visioni. Il futuro disegnatore di Fables, soprattutto, si inventò uno stile diverso per ogni uscita, cercando di assecondare il più possibile l’andamento della sceneggiatura. Sebbene alcuni passaggi siano piacevoli, il risultato non è di certo memorabile come si vuol far credere. Siamo lontani dal gigante che diventerà – tranne forse nella sezione presente in ogni albo denominata “Recupero”, autentico ponte verso la Silver Age – e spesso l’idea del continuo cambio di tono rende il tutto troppo confusionario. Passare da un tratto da strip comica al realismo per finire a sperimentare con tecniche quasi da acquaforte non è certo da tutti. Saperli dosare in maniera funzionale poi è materia per pochissimi.
Dal canto suo lo sceneggiatore manca spesso di ritmo e rende la lettura non sempre piacevole. Va detto che Gaiman rimarrà per sempre innamorato della sua voce e ci penserà sempre due volte prima di tagliare una didascalia in favore della pura leggibilità, quindi sapete di che cosa stiamo parlando. Eppure ci si sente di perdonare tutto, di far finta che un giorno o l’altro anche il resto della gestione di questi due artisti sarà pubblicata, che in quasi 25 anni di ritardi e battaglie legali non sia cambiato nulla nel mondo di cappe e mutandoni in spandex. Perché, seppur in maniera acerba, la grandezza di Miracleman stava nello sfruttare il linguaggio del fumetto per raggiungere un traguardo enorme. La messa in scena più realistica possibile di uno scenario assurdo. E ci provava sfruttando ogni mezzo a sua disposizione.