Quando uscì il primo film di Ghostbusters, nel 1984, fu una vera sensazione. Come un gigantesco puzzle, tutti i pezzi erano andati al posto giusto: nonostante la morte di John Belushi e le defezioni di John Candy e di Eddie Murphy, il “rimpiazzo” Bill Murray si dimostrò spettacolare e così pure Dan Aykroyd (che aveva avuto l’idea iniziale del film), Harold Ramis (scomparso l’anno scorso) perfetto, così come la prima recluta dei Ghostbusters, Ernie Hudson, mentre la coppia Sigourney Weaver e Rick Moranis era ideale per i ruoli di non protagonisti.
Ivan Reitman aveva fatto un lavoro straordinario nel ridurre a più sensati termini il faraonico soggetto di Aykroyd e Ramis, che uscivano dai territori noti del Saturday Night Live e si avventuravano in quelli del grande cinema.
Anche la colonna sonora e soprattutto il singolo, scritto ed interpretato da Ray Parker Jr. fu una sensazione. Uscito di getto dalla penna del musicista, aveva due ritornelli che sono entrati nella leggenda (“Who you gonna call? Ghostbusters!” e “I ain’t afraid of no ghost.”). E uno dei primi video musicali sempre con la regia di Reitman e tutti gli interpreti giusti, più spezzoni del film e cameo di altri attori. Era la versione pop, surreale ed elettrica di Thriller di Michael Jackson, uscito due anni prima.
La voglia di paura, di carnevale pieno di fantasmi, era stato una vera e propria chiamata alle armi per la generazione degli anni Ottanta che con questo film viene bene o male definita, così come la New York dell’immaginario comune. Diventa per scherzo ma fino a un certo punto la città mistica che unisce al potere di Wall Street e allo stile del Greenwich Village anche il soprannaturale che era già stato di Londra e di Parigi nei secoli precedenti (e da noi un po’ di Torino). Per scherzo, ripeto, ma sono cose che alimentano la cultura pop.
Poi un sequel dimenticabile, e poi ancora una raffica di fumetti, videogiochi, pupazzi, parchi a tema, serie televisive, cartoni animati e chi più ne ha più ne metta. Dopotutto, a partire da Guerre Stellari (1977), la lezione che George Lucas aveva impartito al mondo del cinema sullo sfruttamento di quelle che poi sarebbero diventate le “properties” di un “franchise” soprattutto se fantasy o di fantascienza era stata ben digerita negli anni Ottanta.
Il terzo titolo non vide mai la luce (se non come videogioco tre o quattro anni fa) per una serie piuttosto lunga di motivi che è inutile stare qui a riassumere. Il punto è che gli attori si erano stancati, il ciclo era finito e non c’era neanche l’energia per fare come in Star Trek, cioè un film-staffetta in cui la vecchia generazione passasse il testimone alla nuova.
Arriviamo al 2016 e al reboot diretto da Paul Feig e scritto da lui con Katie Dippold, interpretato da Melissa McCarthy, Kristen Wiig, Kate McKinnon e Leslie Jones con in più il boy-toy Chris Hemsworth e qualche altro comprimario (tra cui Andy Garcia che fa qualche scena come sindaco di New York).
È un bel film, fatto bene, con qualche perplessità sugli snodi secondari della storia e un grande, grandissimo problema: gli manca la polverina magica. Quello che il gruppo di comici del Saturday Night degli anni Settanta era riuscito a trasmettere al Ghostbusters originale. Insomma, il miracolo non si è più ripetuto. Non ci sono più riusciti loro, che infatti hanno cercato di evitare il terzo sequel, e certamente non ci sono riuscite le ragazze-femministe-politicamente corrette di questo reboot. Le giovani allieve di Tina Fey (o perlomeno questo sembrano) hanno certamente messo un sacco di energia cercando però di tenersi in equilibrio su una storia a cui manca fondamentalmente una identità.
Ghostbusters 2016 è stato volutamente pensato come un “femmine contro maschi” e quindi vediamolo così, con la consapevolezza però che si tratta di un’analisi e che non ha niente a che fare con gli attacchi e gli insulti personali che sono stati rivolti all’attrice nera Leslie Jones e che hanno portato a forti polemiche in rete.
La squadra dei maschi del 1984 ha una qualità che manca completamente a quella del 2016: un umorismo surreale e situazionista, una vena di vera lucida follia, e un modo di muoversi e andare in giro che non può essere definito diversamente se non citando un altro film di Aykroyd con Belushi: “in missione per conto di Dio”. Alle ragazze, che sono talenti della stand-up comedy, interpreti piuttosto di successo di nuovi modi di presentare le figure femminili sul grande schermo.
Melissa McCarthy è stata davvero notevole in Spy (2015) e Le amiche della sposa (2011), e delle quattro è forse la più talentuosa ed esplosiva.
Kristen Wiig, che ha la parte della spalla e regge la parte razionale del film, anche se contiene anche la sua vena di follia, cioè la passione incontenibile per il segretario-zucca vuota e boy-toy Chris Hemsworth (il Thor dei Marvel Studios). Ha fatto di tutto, oltre al Saturday Night Show: da The Martian (2015) alla doppiatrice dei film della serie Despicable me (2010 e successivi).
Kate McKinnon, la più giovane del gruppo, è creatura più puramente del Saturday Night Show ed è una specie di Fiorello o Gigi Sabani per la capacità di fare imitazioni. La sua recitazione risente del problema che hanno tutti gli imitatori: la difficoltà a trovare e far sentire chiaramente la propria voce (non a caso di solito gli imitatori finiscono a fare i presentatori, perché si tratta di un mestiere in cui si interpreta un ruolo più generico e semplice da abitare: potrebbero anche andare a leggere il telegiornale con risultati più che passabili secondo me).
Infine Leslie Jones, la più “anziana” del gruppo, è l’attrice nera bersagliata su twitter da insulti razzisti e accuse (infondate) di vario genere, che ha una carriera piuttosto solida come attrice comica al Saturday Night e altri show, oltre a una quindicina di particine in vari film tendenzialmente leggeri.
Le quattro (più Hemsworth) scappano da tutte le parti seguendo una traccia piuttosto esile. Ma non è quello il limite del film: tutti i Ghostbusters hanno avuto una traccia piuttosto esile (i primi trattamenti scritti da Aykroyd e Ramis, erano “spessi come un elenco del telefono” e praticamente privi di una storia lineare e di senso comune). È la polverina magica a fare la differenza. E la regia. Non mi piacciono le scene con la Ecto-1, la mitica macchina dei Ghostbusters, che nella prima versione è tutt’altro che lenta o “scenica”. Schizza via, sbanda, rischia di fare incidenti come la Bluesmobile usata da Aykroyd e Belushi in The Blues Brothers. È una macchina seria, un’ambulanza lanciata al salvataggio della città. Quella del remake, pardon “reboot”, è un carro funebre che si muove lento e malamente, con inquadrature sguaiate e zoppicanti.
Ancora, quando si esce dagli scambi di pura comicità (e qui la presenza dell’australiano Hemsworth aiuta a incendiare le situazioni comiche) il film perde focalizzazione. Posso quasi sentire lo stupore della produzione: gli elementi ci sono tutti, gli snodi di trama, il bla-bla-bla meta-tecno-fisico, gli effettoni speciali di alto livello, i fantasmi abbastanza ben caratterizzati. E allora?
Secondo me i motivi per cui non funziona Ghostbusters del 2016 (di cui già si sa che ci sarà un sequel) sono due. Il primo è che siamo tutti cresciuti e diventati più “adulti”, meno ingenui, più disincantati. Comparire per pochi secondi in una inquadratura ti dava fama eterna perché c’era una tale scarsità di miti e di nuovi immaginari che bastava veramente poco per farsi affascinare. Se riguardate il video musicale del 1984 capirete forse meglio cosa voglio dire.
E poi perché il reboot cerca di trasformare letteralmente una squadra maschile in una squadra femminile, senza però cambiare niente. Ma sono donne, non uomini. E imitare gli uomini non è una buona strategia per far crescere una consapevolezza di genere. I personaggi di Ghostbusters originale sono degli stereotipi, piatti, bassi, che funzionano grazie agli interpreti. Sono delle maschere, a cui non puoi semplicemente cambiare sesso e pensare che funzionino come prima: ci vuole un salto di fantasia e la capacità di fare qualcosa di più, essere originali, infedeli rispetto al passato. Ghostbusters del 2016 è fermo esattamente lì, a metà del guado. Un film ben fatto e interpretato ma per niente coraggioso. È la sua rovina.
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*Antonio Dini, giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. Ha un blog dal 2002: Il posto di Antonio.