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“Toy Story 4”, la recensione

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Se non ci fosse stato Toy Story 3, il quarto capitolo della saga da cui è nato tutto sarebbe il migliore. Sì, perché Toy Story è per la Pixar quello che Topolino è per la Disney. Un monumento. Un gigante. Qualcosa che, nella sua algida, strana, quasi aliena ma profonda umanità (dopotutto sono giocattoli animati) segna una continuità profonda.

Pixar, cioè i suoi creatori (sui quali torneremo tra un momento), ha costruito il suo enorme castello iniziando proprio da qui. Da un lato con la lampada saltellante, Luxo. Dall’altro con i cowboy e i ranger spaziali che hanno riempito le avventure di noi bambini un po’ cresciuti e di altri che adesso sono effettivamente cresciuti.

La straordinaria parabola dell’azienda che ha inventato l’animazione al computer e il mondo dei cartoni animati digitali, e che ha sostanzialmente stravolto l’intero settore grazie non solo alla lungimiranza dei suoi creatori ma anche all’investimento e alla guida di Steve Jobs, nel tempo ha perso dei pezzi significativi, tra i quali forse anche la sua mente pensante travolta dagli scandali del #metoo, ma è riuscita a mantenersi in quella posizione centrale tipica di chi pensa che lo show debba andare avanti. E lo show con Pixar va avanti, anche perché l’operazione forse più difficile, ovvero quella dell’innesto nel DNA di Disney, è perfettamente riuscita.

La storia dei giocattoli animati, la storia dell’amicizia, il rapporto con i bambini, la paura dei giocattoli perduti, tutte le metafore possibili sulla vita, il senso dell’andare avanti e quello che ci aspetta nel buio, oltre a quella barriera che separa il bambino dall’adulto, sono i temi importanti della serie di film di Toy Story.

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Il quarto capitolo si pone coerentemente in fila con gli altri tre: la storia va avanti come se fosse una narrazione che procede una settimana dopo l’altra e non attraverso venti anni di sperimentazioni e lavoro. Quello che i geni di Pixar vogliono dire, infinitamente lavorato, ridefinito, molato e reso sempre più pulito e lucido, è qualcosa che nella sua complessa semplicità è in realtà universale. Il loro ritmo è un discorso che lega fili molto differenti: la tecnologia, la tecnica nella produzione, il desiderio di sperimentare, ma anche l’arte di narrare, la ricerca del modo per trovare qualcosa di universale e renderlo unico, e di rendere qualcosa di unico veramente universale.

Anche solo accennare a quali sono gli elementi più divertenti della storia, gli snodi che sorprendono, i momenti che commuovono e che fanno pensare al bambino che abbiamo lasciato a stupirsi dentro di noi, o magari al piccolo bambino seduto accanto a noi che per la prima volta può vedere quello stesso racconto che ci commosse tanti anni fa, sarebbe fare un grave torto alla capacità di argomentare e costruire la storia degli sceneggiatori della Pixar.

Niente spoiler, dunque, ma solo un vago riferimento alla trama. Questa è la storia che forse conclude tutto, ma è anche la storia che probabilmente apre e crea una nuova origine, un nuovo punto di partenza, la possibilità di andare oltre i limiti che i creatori di Toy Story si erano imposti. Come e meglio di Cars 3, che è forse l’altro grande film Pixar che segna una nuova storia delle origini, fondante e al tempo stesso conclusiva.

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Alcuni anni fa a Milano si tenne una mostra con i lavori e disegni preparatori che gli artisti della Pixar usavano, penne e pennelli su carta, per preparare le scene che poi sarebbero diventate animazione al computer. Non so se è perché forse eravamo tutti più ingenui, oppure perché credevamo veramente al mito di Steve Jobs e alla creatività come qualcosa di lunare e fuori da qualsiasi parametro, al guizzo dello spirito oltre che della intelligenza, però scoprire che quei geni del computer e dell’animazione digitale sapevano anche disegnare, fu quasi un’illuminazione.

Oggi, guardando i panorami mozzafiato del quarto capitolo di Toy Story, le animazioni ultra-precise, gli effetti di luce, la ricchezza, velocità e complessità, ma allo stesso tempo anche la grande semplicità dell’animazione che la Pixar è in grado di produrre, quasi non ci si stupisce più. Forse lo diamo per scontato? Non dovremmo, perché è qualcosa di così straordinariamente ricco e complesso che dovrebbe semplicemente farci rallegrare di aver potuto seguire questa fenomenale parabola, sempre in crescita, sino al punto in cui è arrivata oggi.

Toy Story 4 è uno dei film più belli della Pixar. Richiede una conoscenza dei personaggi a cui difficilmente si può ovviare se non si è visto il resto della tetralogia, ma per tutto quel che riguarda il piacere e a tratti la goduria vera e propria che questo film è in grado di dare, oggi non c’è di meglio.

Una piccola postilla, quasi sottovoce. Il doppiatore italiano del protagonista, lo sceriffo Woody, era Fabrizio Frizzi, il conduttore televisivo scomparso a marzo dell’anno scorso. Adesso la voce è diventata quella del bravo Angelo Maggi (già voce di Tom Hanks in vari film, e l’attore americano è quello che poi fa da base per Woody in originale). Ma non è più la stessa cosa.

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