Dal giugno al settembre dello scorso anno, presso la Galerie Barbier & Mathon, in rue Choron a Parigi, si è tenuta una personale del disegnatore francese Manu Larcenet dall’emblematico titolo “L’adieu au papier”. Con l’esposizione Larcenet sanciva il suo abbandono alla carta e l’inizio di una nuova avventura attraverso l’uso del digitale. In un’intervista rilasciata a France Culture diceva:

Da quando avevo 12 anni, ogni giorno ho disegnato con gli stessi strumenti: penna, pennello, pennarello e pennino… Ero stufo. Ho scoperto la tecnologia digitale e una nuova maniera di pensare al disegno, alla tavola e persino al gesto stesso del disegnare. È una rinascita per me. A volte, c’era un elemento nella vignetta che mi piaceva, ma era sommerso. Ora, se dovesse capitare un incidente che per me è superiore a quello che potrei fare in maniera cosciente, posso tenerlo e costruirci intorno. È dall’errore che nel disegno si crea uno stile, un’atmosfera. Quando mi sono accorto che avevo pieno controllo dei pennelli, li ho gettati […]. È necessario aver voglia di ritornare sulla pagina e ultimamente non ne avevo più voglia, non avevo più sorprese.

Questo lungo passaggio mette in chiaro un lato sorprendente del carattere di Manu Larcenet: alla base della sua arte c’è l’imprevisto e la capacità adattiva a un nuovo ambiente.

manu larcenet
Manu Larcenet, autoritratto

Lo stile di Larcenet è in continua evoluzione, ma fedele a se stesso, mostrando il talento indiscusso nel tessere atmosfere e tonalità emotive uniche. Riconoscibile in ogni genere, dal comico al drammatico, passando per il memoir filosofico alla biografia romanzata, lo stile di Larcenet non si distingue solo per l’uso della lingua, dei colori e del tratto – mediato attraverso pennelli, stilo, biro e pennini – ma come dice Eco, nel saggio Sullo Stile, «dal modo di disporre strutture narrative, di disegnare personaggi, di articolare punti di vista», cioè, da «ogni strategia semiotica che si dipana sia in superficie che in profondità lungo le nervature di un testo».

Tutto ciò, ha a che fare con un’idea organicistica e semiotica dell’opera d’arte e soprattutto dello stile, visto non solo come ingegno e originalità, ma come capacità di gestire l’opera in maniera organica in ogni suo aspetto da quello, per l’appunto, più superficiale, a quello più sotterraneo e marginale.

scontro quotidiano larcenet

Se pensiamo alle opere di Larcenet non possiamo soffermarci un attimo a pensare come ognuna di esse abbia un carattere ben specifico, un tratto che la rende unica. Nonostante, questa originalità, sono tessute e trattenute insieme appunto dalla capacità più unica che rara per un autore che si intrattiene con vari generi di essere tutte dei riflessi e, al limite, dei ritratti di Larcenet.

Perché quello che rende accattivanti le opere del fumettista francese è quella sottile attitudine analitica a riflettere sul ruolo dell’arte e della creazione artistica senza doverci necessariamente farci sciroppare l’ennesima autobiografia. Alla base vi è sempre una solida costruzione romanzesca in cui Manu Larcenet fa continuamente capolino, informandoci di dove si trova in quel preciso momento, di come vive l’atto creativo o semplicemente il suo essere al mondo come semplice essere umano.

Dall’umorismo di Fluide Glacial alla filosofia adolescenziale di Faremo Senza

Manu Larcenet nasce nel 1969 a Issy-les-Moulineaux e dopo aver conseguito il brevetto di tecnico superiore in linguaggi visivi all’ecole Olivier-de-Serres pubblica la sua prima serie nel 1991 sulla rivista Yéti. Ma è nel 1994 che crea per la rivista Fluide Glacial il suo primo personaggio di successo, Bill Baroud, nel quale fonde la sua passione per l’avventura con una sana vena umoristica.

Bil Baroud è una parodia dei personaggi come James Bond o l’Agente X-9, meno famoso al grande pubblico, ma non agli amanti del fumetto della Golden Age. Così come quest’ultimo è un agente dell’FBI tutto di un pezzo, ma soprattutto è una spia. Larcenet tratta tutto con piglio parodistico, gettando il suo eroe in avventure improbabili. Lo stile grafico è già riconoscibile, i nasi e i volti si delineano già come una probabile firma, così come gli imprevisti squarci realistici. Il tono si fa più adulto nell’ultimo capitolo della saga, dedicata alla giovinezza dell’eroe, dove temi come il razzismo e l’infanzia fanno capolino.

Nel 1997, fonda insieme a Nicolas Lebdel la sua casa editrice, Les Rêveurs, con la quale pubblica le sue opere più intime e sperimentali, tra le quali Presque, Ex Abrupto e Le Sens de la vis. Sono opere inedite qui in Italia, immeritatamente perché contengono i nuclei tematici che formeranno la vena romanzesca del Larcenet maturo. Al centro troviamo la creazione artistica come fare tentativo, il ruolo dell’artista in relazione alla sua opera, la morte e soprattutto il senso della vita. Concetti che si intrecceranno in un unicum in opere come Lo scontro quotidiano e Blast.

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A questo periodo appartiene anche On fera avec, pubblicato nel 2000 e portato in Italia da Coconico Press con il titolo Faremo senza. L’edizione italiana è arricchita da una prefazione di Zerocalcare, che ne ha voluto la pubblicazione dell’edizione italiana, curandone anche la traduzione. Si tratta di un’opera autoreferenziale, in cui il giovane Larcenet – allora ventenne – sentenzia sulla vita a partire dal suo hortus conclusus. Il tratto – minimale e sporco – segue e glossa lo stream of consciousness di un giovane uomo consapevole dei limiti e della mortalità.

Pagina dopo pagina, un pattern ritmico, debitore della lezione di Lewis Trondheim e dell’Oulibo, snoda le vicissitudini di un omino senza volto, mentre le didascalie lanciano in modo sentenzioso massime sulle vita. Il punto più incandescente è quello sulla solitudine e sull’ansia sociale, tema che ritornerà a più riprese nel corso dell’itinerario artistico di Larcenet e che si legherà a doppia mandata con la riflessione sul corpo vissuto.

Come annota Ferriero su queste pagine, Faremo senza è «un libello diversamente maturo… acerbo, narcisista e preso dalla propria quotidiana scoperta delle gioie e dei dolori che si presentano all’affacciarsi della vita adulta. È il tipo di produzione che ti aspetti germinare da un adolescente scontratosi di faccia contro il mondo, a dirla tutta. Dove regna un pensiero non ancora del tutto ragionato o libero dalla sua stessa prospettiva esistenziale». Non sorprende che resti uno dei libri preferiti di Zerocalcare.

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A questo stesso periodo appartengono anche i libelli “filosofico-esistenziali” come L’angelus de midi, Nombreux sont ceu qui ignorent, Peu de gens savent, i due tomi di Le Sens de la vis (tutti pubblicati in maniera indipendente) e il delicato e programmatico De Mon Chien Comme Preuve Irréfutable de l’inexistence d’un Dieu Omnipresente, pubblicato dall’editore 6 Pieds sous Terre. Sono libri illustrati in cui però appaiono elementi iconici di fondamentale importanza e che diventeranno ricorrenti. Larcenet comincia a ritrarsi come un omone obeso dal vistoso naso: è quasi impossibile non riconoscere le fattezze di uno dei suoi personaggi più famosi, quel Polza Mancini, centro gravitazionale e narrativo di Blast, il capolavoro della maturità.

Scontri e ritorni: la cena è pronta

Nel 2000, Larcenet inizia a lavorare con l’editore Dargaud, pubblicando le sue opere umoristiche nella collana Poisson Pilote. Esordisce con un’opera a quattro mani insieme a Lewis Trondheim: Le Cosmonautes du futur, all’interno della stessa collana appare la serie delle Avventure rocambolesche, pubblicate di recente in Italia da Coconino. Dei cinque volumi, i primi due tomi sono quelli più incisivi e personali: Tempo da cani, originariamente pubblicato nel 2002, e La linea del fronte, del 2004.

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Se Tempo da cani – dedicato alle improbabile avventure americane di Sigmund Freud – è un album meticcio, stracolmo di battute e frecciate alla psicanalisi da salotto, ma con momenti duri in cui Larcenet alza l’asticella e punta al problema dell’identità e della libertà, La linea del fronte è invece un’opera che sancisce l’avvenuta maturità.

Questa volta il protagonista della rocambolesca avventura è Vincent Van Gogh. Larcenet lo prende di peso e lo conduce al centro del primo conflitto mondiale. È un atto anacronistico – il pittore olandese muore nel 1890 – e anarchico. Dal fronte orientale le notizie che giungono sono incerte, tutti gli agenti mandati al fronte scompaiono e disertano lasciando le alte sfere nel buio completo. Le truppe sono in rotta e nessuno riesce a restituire un quadro completo di quello che sta avvenendo. L’idea “geniale” del presidente è mandare un artista a ritrarre il cuore nero del fronte. Solo l’occhio acuto e attento di un artista come il caporale in pensione Vincent Van Gogh potrà cogliere ciò che avviene al di là delle trincee.

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La palette scelta da Larcenet è acida, esuberante e spesso anti-realista. La realtà è già trasfigurata attraverso l’occhio di Van Gogh, che non appena giunto sul luogo ha continui blast: vede tutto tingersi di rosso e i soldati assumere le fattezze di rapaci e uccelli. Un simbolo affiorato in superficie già in Faremo senza e che diverrà un elemento centrale anche in Blast, così come il rosso in Lo scontro quotidiano.

Ma La linea del fronte non si limita a raccogliere alcune intuizioni e condurle a maturità: è un racconto sul male e sulla memoria (come lo sarà Il rapporto Brodeck) che parte in punta di piedi attraverso il racconto umoristico per poi tirare il lettore nel pieno dell’orrore. L’irruzione del realismo, di un tratto quasi maniacale e carico, della violenza cromatica sanciscono il trapasso del fronte. L’esperienza che vivrà Vincent è da togliere il fiato.

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In Supper’s Ready – suite monolitica del progressive britannico composta dai Genesis di Foxtrot nel 1972 – c’è un passaggio in cui Peter Gabriel tratteggia il campo di battaglia dopo un violento scontro. È un momento elegiaco dal punto di vista musicale, ma a livello testuale il cantautore inglese è molto duro:

Vagando per il caos lasciato dalla battaglia
Ci arrampichiamo sulla montagna di carne umana
Fino a un pianoro di erba verde e di verdi alberi rigogliosi.
La figura d’un giovane siede ferma vicino a un laghetto,
Marchiata “Pancetta umana” con qualche arnese da macello.

La metafora usata da Gabriel è chiara: i cadaveri dei soldati sono ridotti a una poltiglia irriconoscibile e l’unica presenza – nonostante la deferenza e il narcisismo che mostra ai protagonisti della vicenda – è marchiata come “pancetta umana”, semplice carne da macello. Larcenet mostra questa poltiglia senza volto tra le pagine del suo libro, mettendo a dura prova la ragione di Van Gogh, le cui opere riportate in patria, non potranno che destare perplessità nei committenti.

Questo interesse per l’umanità offesa e ferita sarà il fil rouge della prima grande opera di Larcenet. Lo scontro quotidiano, infatti, non si occupa solo delle crisi esistenziali del giovane fotoreporter Marco (alter ego cartaceo dell’autore), ma soprattutto dei margini, del passato, del rimosso e della violenza della guerra.

Su queste stesse pagine ci siamo intrattenuti a lungo cercando di analizzare e sviscerare per quanto possibile la complessità di un’opera che nel percorso di Larcenet rappresenta sicuramente un punto di non ritorno, un tentativo di fondere in un corpo romanzesco le diverse anime della sua arte: dalla pseudo-biografia al racconto umoristico (il tratto è quello cartoonesco degli esodi e delle Avventure rocambolesche), dal memoir filosofico all’analisi dell’attualità politica e sociale, mostrando che non è più Marco/Manu il centro del mondo, ma che tutto si allarga in cerchi concentrici e direzioni diverse e che l’arte di stare al mondo è un tentativo di trovare un equilibrio o per citare il caro vecchio Battiato, un centro di gravità permanente.

scontro quotidiano larcenet

Grazie al primo tomo de Lo scontro quotidiano, Larcenet otterrà il premio per il miglio album al Festival d’Angoulême del 2004. Un premio che sancirà così il suo riconoscimento non solo come giovane promessa del fumetto franco-belga, ma come uno dei più rappresentativi autori della sua generazione.

Questo periodo si conclude così come era cominciato: con un’opera a quattro mani. Il ritorno alla terra, sceneggiato insieme all’amico Jean-Yves Ferri, parla della scelta di tornare a vivere lontano dal caos della città. Un tema, questo, già affrontato ne Lo scontro quotidiano, ma qui trattato con leggerezza, come escapismo.

Il tratto di Larcenet si fa più morbido e calmo, evitando le nervose sterzate sottolineate dalle pennellate grasse e dal tratto nevrotico del pennino, svelando un amore profondo per le strisce sindacate americane, su tutti i Peanuts di Charles Schulz. Ferri e Larcenet inanellano piccoli accadimenti quotidiani, costellando le tavole di personaggi istrionici e atipici. Rapanel, un minuscolo borgo di campagna, diventa il centro del mondo: Manu e Mariette, insieme alla piccola Nasturzia, affrontano giorno dopo giorno la nuova vita.

Un capitolo – seppur minore – di capitale importanza per capire l’artista. Non è un caso che la svolta a cui accennavamo in apertura, quella verso il digitale, prende il passo da queste storie. Non è un caso che dopo l’inabissamento di Blast e de Il rapporto Brodek, Manu Larcenet abbia bisogno di levità e colore.

L’opera al nero

Curate le crisi di panico il fumettista francese sembra aver trovato un’oasi di pace nella sua nuova vita bucolica. È il momento opportuno per compiere uno degli atti più coraggiosi per un artista, creare il suo opus magnum.

Tra il 2008 e il 2014, Larcenet sarà impegnato nella stesura e nella realizzazione di Blast, un romanzo grafico diviso in quattro tomi, di recente ristampato in edizione integrale per Coconino. Un volume che per la prima volta presenta nel formato originale le vicende di Polza Mancini. Attraverso la crisi di Polza, Manu Larcenet affronta temi scomodi come la depressione, l’alcolismo, l’obesità (o meglio il rapporto con il corpo) e ancora una volta la solitudine.

manu larcenet blast

Per toccare e rappresentare l’oscurità che abita il corpo di Polza, Manu Larcenet è costretto a far fronte a uno sforzo tecnico senza pari: bandito il colore, le tavole ora schizzate con la penna biro ora colmate con un sapiente uso di sfumature monocrome si aprono a squarci di colore in cui la tecnica mista diventa un campo minato, dove l’esplosione del colore denota uno stato emotivo limite, un’epifania di senso. Il tratto infantile qua diventa segno di una verità ultima, di un’apertura all’evento e all’altro, rappresentato da un moai.

Nonostante la ricchezza narrativa, il fulcro del romanzo resta Polza Mancini, un essere, come ricorda Barbieri, «insieme rivoltante e affascinante […] rivoltante perché di una grassezza esagerata e laida, alimentata da merendine e alcool scadente […] affascinante perché questa sozza palla di lardo rivela continuamente una sensibilità, un’attenzione alla vita e un’intelligenza narrativa che non lasciano indifferenti».

In Blast non è solo la vicenda che ci tiene incollati alla lettura, ma è soprattutto la maniera in cui veniamo a conoscenza di quello che è successo, direttamente dalla bocca sporca di cioccolato di Polza. È quella voragine che vomita una storia fatta di eccessi e insieme di libertà, di turpitudine e di leggiadria, in cui il memoriale diventa un gioco al rimpiattino.

Il lettore è appeso alle sue labbra, per procedere deve sospendere l’incredulità e credere a tutto quello che racconta: tutto è soffuso di ambiguità, di attesa e di esasperante curiosità. Manu Larcenet crea una regia sapiente, in cui il montaggio cinematografico va avanti con un ritmo sussultorio, con un montaggio anarchico dove aspettiamo con ferocia il prossimo “blast”.

Eppure, nonostante le sequenza delle epifanie del protagonista siano tra le più evocative del romanzo, ci sono momenti molto più forti che restano impressi in maniera indelebile nella memoria visiva di chiunque abbia avuto la fortuna di leggerlo.

All’inizio del primo tomo, Grande carcassa, c’è una sequenza di quattro pagine all’inizio dell’interrogatorio: il tutto si apre con un landscape accennato, un cielo grigio che corona una città, schizzata con velocità. Questa improvvisa stasi ci introduce al cospetto di Polza, sudato, succube della sua carcassa, con gli occhi sgranati si muove tra i corridoi di un ospedale. In alto leggiamo un’indicazione che ci informa che ci troviamo nel reparto di oncologia. Polza si sta recando in visita da qualcuno, si muove tra volti sconosciuti e indifferenti. Giunto dinanzi alla stanza 331, esita visibilmente sudato e terrorizzato.

Le sei vignette che occupano i due terzi della pagina inferiore rallentano il ritmo, ci costringono a fermarci più volte, esitando sullo spazio bianco, fino a che la mano pesante di Polza non afferra la maniglia e conduce nella penombra la mole ingombrante del suo corpo. La splash page che chiude questa sequenza è un pugno nello stomaco: su un letto disfatto giace in una posizione innaturale quello che resta di un corpo. Consumato dal cancro non resta che un mucchietto d’ossa che si contrappone al grasso laido di Polza.

Quanto raccontato è la scaturigine di tutto, quello che spinge Polza a lasciare una vita borghese, lasciandosi alle spalle la sicurezza delle regole del vita civile per inabissarsi nel buio di una foresta non solo reale, ma soprattutto ideale dopo la folgorazione violenta del blast.

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Nelle oltre ottocento pagine che compongono il romanzo succede di tutto e ci troviamo davanti a un racconto in prima persona di quanto vissuto da un presunto omicida, una storia fatta di ossessioni e incubi, in cui assistiamo a momenti in cui siamo messi dinanzi ai margini dell’esistenza, dove tutto diventa sfumato, il male e il bene sono una massa confusa e aggrovigliata in cui in maniera indistinta il grigio con le sue innumerevoli sfumature diventa l’unica tonalità emotiva. L’amoralità di Polza Mancini diventa un passepartout per l’inferno.

È lo stesso inferno che Larcenet non pago dell’abisso emotivo di Mancini decide di esplorare nel dittico de Il rapporto di Brodeck. Per chi scrive, la riduzione del romanzo di Cludel è forse tecnicamente il lavoro più estremo del fumettista francese. Vi è un totale decantamento di ogni elemento comico e leggero, dove il realismo più esasperato è alimentato da uno stile unico, ma nel contempo accademico in cui la lezione di Dino Battaglia si associa a un lavoro sulla luce di estrema forza in cui i fantasmi di Cezanne, Van Gogh e Rembrandt vengono più volte evocati e superati in una visione di insieme in cui il nero diventa asfissiante. Così come le parole di Bernard in Gelo, così gli inchiostri di Larcenet catturano una stasi e un terrore che diviene palpabile sino quasi a togliere il fiato, come nelle ricorrenti scene nel campo di lavoro.

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Come annotava Davide Scagni: «Come sempre in Larcenet, la scelta dello stile si fa portatrice di significato: nella struttura orizzontale delle tavole, che dirige lo spazio e lo sguardo, il segno mai così dettagliato di Larcenet non evoca ma traduce la realtà per mostrare la durezza della natura e dei volti, le rughe crudeli degli animali e dei vecchi».

Le scelte stilistiche (e semiotiche) non sono semplici scelte strategiche per condurre nel migliore dei modi possibili il racconto, ma sono anche una riflessione estrema sui limiti del linguaggio e del segno nella dimostrazione della crasi che esiste tra evento e parola.

Il racconto di per sé è un’impostura, una costruzione, un qualcosa che non la conta giusta. Nell’assenza del rapporto, del linguaggio clinico che descrive i fatti germina la versione di Polza così come quella di Brodeck. Sono estranei in un mondo fatto di riti e cerimonie, in cui il rapporto tra il linguaggio e lo stato di fatti esplode in un pulviscolo di immagini che cercano di rendere la verità nella sua cruda essenza senza riuscirvi, barcollando di segno in segno, di tratto in tratto verso il buio, verso l’oblio. Perché ancora una volta l’interesse di Larcenet è verso il rimosso e verso lo scandaglio del linguaggio, verso la verità sepolta nelle pieghe vistose della pelle e del corpo.

Tra l’adipe di Polza e i volti scavati dalle intemperie dei compaesani di Brodeck, Larcenet nel 2012 ha illustrato in maniera superba il Journal d’un corps di Daniel Pennac. In quelle illustrazioni, ogni elemento cartoonesco è evaporato in una tecnica ascetica e aspra che è stata riversata nel tratto materico e realista della sua ultima opera. Un lavoro che l’ha allontanato dalla carta, perché ormai priva di quell’asperità utile alla creazione. Il totale controllo del mezzo espressivo, del linguaggio tout court dell’immagine ha portato Larcenet sulla strada dell’oblio e dell’abbandono. Al suo apice il fumettista francese ha deciso di abbandonare tutto quello che l’ha reso quello che è.

Epilogo

Manu Larcenet ha compiuto 50 anni lasciando il calamo nel cassetto, dedicandosi alla scoperta del digitale, ritornando a raccontarci del suo esilio nella terra, lontano dal frastuono e dai premi, mostrandoci come raccontare sia un’arte difficile non autorefenziale e ombelicale, ma un atto di accusa. Ogni pagina di Larcenet trasuda vittoria e sconfitta, gloria e dannazione, ma soprattutto amore.

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