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“L’età dell’oro” di Cyril Pedrosa, un fantasy caleidoscopico

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Bisogna avere carattere per non avere carattere. Per un creativo, lavorare in un colosso come la Disney, ad esempio, può diventare un’esperienza dilaniante. Bisogna livellare ogni asperità personale, smussare tutte le peculiarità della propria mano per adeguarsi a uno stile, piegarsi a una volontà più grande. Il francese Cyril Pedrosa, che alla fine degli anni Novanta lavorò come intercalatore su Il gobbo di Notre Dame e Hercules, se lo ricorda bene. Altrettanto bene si ricorda del senso di libertà sperimentato quando a decidere come disegnare qualcosa su un foglio di carta era lui.

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Passato al mestiere del fumettista, Pedrosa ha dato sfogo alla propria urgenza di raccontare, con buoni esiti. La sua ultima fatica è L’età dell’oro, storia in due parti il cui primo volume esce a tre anni di distanza dal precedente lavoro, Gli equinozi.

Frutto della collaborazione ai testi con Roxanne Moreil, L’età dell’oro narra le vicende di Tilda, erede al trono dopo la morte del padre Ronan. Il regno di Lantrevers si sta corrodendo a causa delle spinte di duchi e signorotti interessati al potere invece che alla serenità del popolo che amministrano. Esiliata dal fratello che ha reclamato il titolo di re per sé, Tilda intraprenderà un viaggio per scoprire che il destino ha in serbo per lei piani più grandi di quanto potesse immaginare.

Il fumetto per Pedrosa è una dipartita rispetto alle sue ultime produzioni. Portugal e Gli equinozi erano storie con diversi elementi autobiografici, portavano avanti vicende intimiste rappresentandole con un afflato epico. Qui invece l’autore francese non solo recupera l’ambientazione fantasy di Tre ombre ma sgombra la strada dalle fastidiose derive artistoidi che impestavano Gli equinozi.

Bandita la contemporaneità, Pedrosa torna in un passato fiabesco per raccontare una storia meno cerebrale, complice forse la penna schietta di Moreil. L’età dell’oro scorre dritta come un fuso e non si sfarina in rivoli di autocompiacimento, ma non per questo rinuncia alla complessità dei discorsi.

Senza una guida, Lantrevers è sull’orlo della rovina. Siamo sul limitare di un’era e Tilda è sballottata tra forze centrifughe che vogliono dirottare il futuro del mondo. Insieme al cavaliere Tankred e allo scudiero Bertil, è fuggita alla ricerca dell’unico signore ancora amico. Sulla strada è incappata in una comunità abitata da sole donne, una delle quali, Frida, passa tutto il giorno a studiare nella biblioteca del villaggio. È interessata a un testo, L’età dell’oro, in cui si narra di una terra passata dove regnava la pace e l’uguaglianza.

La donna vorrebbe riportare la società a quei tempi, ma è convinta che per farlo l’unica mossa sia quella di una rivolta popolare. La grande tensione che attraversa il fumetto sta qui, nel continuo richiamo da parte di un personaggio progressista all’età dell’oro che, per sua stessa natura, risiede in un tempo altro dal nostro, impossibile da raggiungere e di matrice conservatrice.

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Frida intercetta il desiderio crescente dei paesani, protagonisti della scena d’apertura in cui conversano di cibi proibiti e delle angherie perpetrate da conti e marchesi. Bertil si fa sedurre dalla promessa dell’uguaglianza sociale ottenuta tramite la guerra, mentre Tankred è ancora fedele al vecchio sistema di vassalli e valvassori e non perde occasioni per ricordare le gerarchie a tutti, a se stesso, allo scudiero, perfino a Tilda.

La giovane vorrebbe la pace fra gli uomini ma è incerta se questa serenità si possa ottenere percorrendo la strada di Frida o restaurando le condizioni care a Tankred. Ogni storia cavalleresca non fa che parlare del recupero di un equilibrio infranto. Un equilibrio che però corrisponde solitamente a un nuovo status quo (non A->B->A ma A->B->C) e pare chiaro anche a Tilda che, qualunque sarà la sua scelta, lo scenario risultante sarà inedito per tutte le fazioni.

L’età dell’oro è anche una storia di corpi. Corpi storpi dei villici (Piccolo Paul, Zoppichino) che però riescono a svolgere le loro mansioni e sono in salute, mentre i corpi austeri e satolli dell’aristocrazia cedono sotto il peso del tempo o delle malattie. Quello di Ronan, re di Lantrevers, che perde l’uso di parole e movimenti. Albaret, uno dei pochi signori ancora fedeli a Tilda, è cieco e tremante. Il corpo della stessa Tilda, fragile per le ferite ricevute all’inizio della storia è sempre più scalfito dagli acciacchi nel suo proseguo.

Il salto da Tre ombre è netto: il bianco e nero ha lasciato spazio ai colori semplici di Cuori solitari e poi alle stratificazioni di Portugal e Gli equinozi. Ora, i colori trasparenti che lasciavano intravedere le linee della matita sono definiti, stesi con consapevolezza sulla pagina. E la loro scelta decisa: l’impianto scenografico de L’età dell’oro è tutto un vorticare attraverso lande color zucchero filato, prati magenta, colline pervinca e cieli color glicine.

Pedrosa comunica con i colori. Costruisce una scena attorno al contrasto del verde con un mantello rosso, o accosta tinte innaturali per creare un effetto stroboscopico. Per l’autore, il mondo de L’età dell’oro è fuori da ogni nostra concezione. Poi, per un breve momento gli alberi viola e le acque color seppia lasciano spazio a una tavolozza realistica, ariosa e idillica. Le tonalità quasi soffocanti che avevano accompagnato il volume svaniscono e davanti a noi si apre una momentanea pace.

È un passaggio breve, che fa sperare per una conclusione positiva della vicenda. Invece, non c’è nemmeno il tempo di abituarcisi che ripiombiamo nella psichedelia, in un inquietante cliffhanger che troverà soddisfazione solo nel secondo volume.

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Da questo punto di vista, giudicare L’età dell’oro è un esercizio difficile, perché la sua bipartizione è netta e priva di autonomia. Difetti se ne trovano – lo scarso peso psicologico riservato a Tankred, un paio di incongruenze nella trama, qualche rimando un po’ troppo calcato alla produzione fantasy contemporanea – ma alcuni potrebbero venire corretti in corsa.

Si può ragionare su altri aspetti dell’opera, come la sua protagonista. I personaggi di Pedrosa sono sempre figure che rifiutano l’avventura, che scansano i loro doveri. In Cuori solitari Jean-Paul non faceva che nascondersi dal mondo, il Louis di Tre ombre fuggiva di fronte a un destino ineluttabile e Portugal prendeva le mosse dal retaggio rifiutato del giovane Simon. Pedrosa stesso, come ha ammesso in un’intervista a 9ème Art, si è rintanato nell’ambientazione medievale per non dover far fronte ai legacci del presente.

Tilda non si discosta dalla galleria degli eroi pedrosiani: a un certo punto della trama, viene messa di fronte la possibilità di fuggire nel gineceo immerso nella natura, la cui amministratrice conferma che «la vita qui è semplice, al riparo dal furore del mondo». «Non so se me ne devo difendere», risponde la ragazza, «o se sono tenuta ad affrontarlo».

Tilda rifugge dalle caratterizzazioni femminili classiche. Non è bella, non è ipersessualizzata, ma nemmeno la “piccola combattente tutta pepe” tipica delle narrazioni che pensano di poter trattare il femminile con equità. Tilda non è passiva di fronte agli eventi, non si limita a reagire alle situazioni ma le cerca, eppure ha comunque paura, è insicura e tridimensionale sulla pagina. Le stesse donne che abitano il villaggio sono raccontante con ambivalenza (sono una comunità pacifica e istruita ma mostrano intransigenza verso gli uomini).

L’altro elemento di cui non occorrono ulteriori campioni per constatarne la bontà sono i disegni, il design ispirato dei personaggi (la madre tratteggiata come il Dracula di Francis Ford Coppola, la stazza e le rughe di Tankred che lo fanno sembrare un vecchio albero presso cui trovare riparo), le loro pose e la messa in scena. Pedrosa sa cosa e come inquadrare. Nella sequenza di assalto alla principessa, per esempio, non sbaglia un passaggio. Come ripresa da una cinepresa a spalla, la scena si fa frastornata dove fino a prima il disegnatore aveva messo su carta i dialoghi nel castello con sobrietà e vignette fermissime.

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Il formato del volume e la sua foliazione lasciano spazio a immagini enormi, panoramiche e immersive. Al francese piace utilizzare questi spazi a mo’ di palchi teatrali. Come le soluzioni di Gianni De Luca, mostra l’evoluzione di un movimento o di un dialogo all’interno della stessa immagine. Ecco che in una vignetta lo stesso personaggio assume più pose e lo vediamo muoversi nello spazio, dialogare, entrare e uscire dagli ambienti.

In questo senso, l’esempio più ardito è una doppia tavola composta da tre strisce in cui, in un lungo piano sequenza, Bertil attraversa un villaggio di donne e ne scopre tutte le attività, dalle divagazioni filosofiche nei boschi all’addestramento e alla cura dei giardini.

È vero, Cyril Pedrosa è fuggito nel passato, ma l’interesse verso la corporeità, il ruolo della donna, la questione dell’uguaglianza (sociale e di genere) rendono il fumetto un’avventura che parla del presente e lo fa imbastendo un immaginario affascinante.

L’età dell’oro vol. 1
di Cyril Pedrosa e Roxanne Moreil
traduzione di Michele Foschini
Bao Publishing, settembre 2018
cartonato, 232 pp., colori
27,00 €

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