di Francesco Gerardi
Come vi immaginate il curriculum vitae di un fumettista? Più o meno, io me lo immagino così: una carriera universitaria attinente al futuro professionale (scrittura creativa per lo sceneggiatore, arte per il disegnatore), uno stage in una casa editrice di una certa importanza per cominciare a capire come si fanno i fumetti, tante autoproduzioni e diverse collaborazioni per costruirsi un curriculum/portfolio e, alla fine di questo percorso, il traguardo della collaborazione stabile, prolungata con un editore importante su una testata importante.
Se andate su Wikipedia a dare un’occhiata alle biografie dei maggiori autori attualmente in attività, vedrete che alla fine le loro storie si somigliano un po’ tutte e sono tutte un po’ così: una rassicurante linea retta, una progressione coerente di esperienze, soddisfazioni, traguardi.
Ma essendoci una regola ci deve essere l’eccezione che la conferma, e in questo caso si tratta di un’eccezione piuttosto nota, piuttosto importante, piuttosto di successo: il nome è King, Tom King (la citazione bondiana pare gratuita adesso ma sarà chiara tra poco), un nome che avete sentito/letto sicuramente se seguite il fumetto americano, supereroistico e non.
In questo momento, Tom King è l’autore della principale testata dedicata a Batman (il quindicinale omonimo) e DC Comics ha dimostrato in ogni modo possibile per un editore di credere moltissimo in lui: gli ha affidato il controllo creativo di uno dei suoi titoli e personaggi fondamentali, lo ha scelto come successore di Scott Snyder su Batman e lo ha blindato con un contratto di esclusiva che prevede che l’autore possa mettere la firma solo su prodotti DC e Vertigo. Nel settore del fumetto statunitense è difficile essere più realizzati di così.
Ma Tom King è l’eccezione che conferma la regola perché il suo percorso professionale, esistenziale, umano, è quanto di più lontano e di più diverso dalla linea retta di cui si parlava prima.
Se dovessimo provare a riassumere la sua vita con la geometria, la scelta ricadrebbe sulla linea a zig-zag: l’infanzia e l’adolescenza passate a leggere fumetti in California; la gioventù trascorsa su libri di storia e filosofia alla Columbia University di New York; uno stage alla DC e un altro alla Marvel; l’11 settembre vissuto in maniera personale, il fumo e i detriti e i morti a una distanza che si può percorrere a piedi; quel meccanismo così americano che porta l’individuo a “voler fare qualcosa per il Paese” e la decisione di entrare nella CIA; sette anni nell’antiterrorismo; il ritorno a casa e in famiglia; un anno abbondante passato a casa, tra figli da crescere e un romanzo da scrivere; il romanzo pubblicato, letto da pochissimi ma abbastanza apprezzato; due anni passati a girare tra le fiere del fumetto d’America, sperando di riuscire ad avere il biglietto da visita, il numero di telefono, l’indirizzo mail di un editor; l’ultima occasione e il primo colpo di fortuna che capitano proprio un attimo prima di rinunciare; il successo.
Provate a mettere questa vita nella forma e negli spazi di un curriculum e poi immaginate di ritrovarvelo sulla vostra scrivania di dirigente di casa editrice di fumetti: come reagireste?
L’infanzia, la California, i fumetti
Tom King nasce nel 1978 in California e cresce a Los Angeles. A crescerlo sono la nonna e la madre, quest’ultima una studio executive di Hollywood che è stata sia l’origine della passione per la narrativa di King che l’argine al suo desiderio di trasformare questa passione in un lavoro. «Mia madre ha sempre pensato che l’industria dell’intrattenimento e la carriera di scrittore fossero un po’ come giocare alla lotteria. Proprio non la considerava una carriera affidabile», racconta a Newsarama.
Ma il piccolo Tom non si lascia intimorire dall’opposizione materna, continua a leggere tanto, prova a scrivere un po’, rafforza la sua passione e ribadisce il suo sogno. A questo punto, la madre è costretta al compromesso: il figlio può continuare a fare i sogni di rock ‘n’ roll finché la pagella scolastica sarà soddisfacente, può continuare gli esercizi per diventare scrittore fintanto che manterrà una media voto che gli permetterà di fare l’avvocato (il sogno della mamma). Le condizioni di questo patto non sono un problema per Tom, che è sempre stato uno “straight A student”, uno studente modello. I voti restano alti, il futuro da scrittore resta possibile.
C’è un altro modo in cui i genitori di Tom King formano la sua attuale carriera di sceneggiatore di fumetti: sono entrambi fumatori, e ogni volta che escono a comprare un pacchetto di sigarette gli comprano un fumetto. Il primo comic book della sua vita (ovviamente) se lo ricorda ancora: il numero 300 di Avengers, scritto da Walter Simonson e illustrato da John Buscema, un fumetto di cui Tom King conserva tutt’oggi una copia nel suo ufficio.
Da quel fumetto in poi, la passione per la narrativa e per la scrittura di Tom prende forma precisa: «Ho sempre voluto scrivere fumetti, ho sempre avuto l’impressione che i fumetti mi dessero qualcosa in più». Tom cresce in un ambiente familiare particolare: sua madre lavora nel cinema, ha contribuito all’invenzione del DVD e ha addirittura vinto un Emmy per questo, casa sua è letteralmente piena di film («Li usavamo per tenere in equilibrio i mobili»). Ma la camera della sua infanzia e della sua giovinezza è un microcosmo retto da cataste di fumetti e tappezzato di poster della Legione dei Super-Eroi.
È utile dare un contesto storico alla passione per i fumetti di King: Avengers #300 in America esce a febbraio del 1989, anno in cui leggere i fumetti è uno dei tratti somatici del nerd, e nerd è ancora sinonimo di sfigato (è lontanissimo lo sdoganamento della geek/nerd culture al coro di «smart is the new sexy»).
E infatti, ricordando la sua gioventù da fumettaro, Tom King dice che «[…] Non era una cosa che si diceva agli altri. C’era l’autentica paura che se avessi detto ai tuoi amici “Sono un grande appassionato di fumetti”, loro ti avrebbero risposto “Oh, sì, anche a me piacciono i film di Batman”, ma tu avresti ribattuto che “No, non capisci. Io conosco sei iterazioni della Bat-mobile e posso dirti cinque line-up di Alpha Flight. Tu non capisci cosa significa essere appassionato di fumetti”».
C’è un altro episodio della gioventù di King che descrive bene la considerazione che il mondo ha dei fumettari e che i fumettari hanno di se stessi in quegli anni: «Ricordo che quando avevo 15 anni, una ragazza molto carina mi chiese di venire a studiare a casa mia. […] Andai a casa e guardai la mia stanza e pensai “Oh no, è piena di fumetti” […]. Aprii l’armadio e strappai tutti i poster dalle pareti e infilai tutti i miei fumetti nell’armadio, una metafora piuttosto ovvia».
Ma gli anni Ottanta non sono solo anni di nerd che cercano di sopravvivere allo scorno della società e all’imbarazzo di sé, ma anche anni di rivoluzione per il fumetto americano: Frank Miller sconvolge tutti con Daredevil, Ronin e Il ritorno del Cavaliere Oscuro, la DC chiude un’epoca con Crisi sulle Terre Infinite, una generazione di talenti britannici invade l’America guidata da futuri venerabili maestri come Alan Moore, Garth Ennis e Neil Gaiman.
Ovviamente, Miller e Moore esercitano un’enorme influenza su Tom King negli anni delle elementari e dei primi tentativi con la scrittura creativa: «[…] Vedevo i trucchi che usavano loro, cose come la ripetizione e le tematiche e… Grazie a quei due riuscii a capire come si costruiscono le storie. Perché, nei fumetti, tantissime storie sono sempre le stesse storie ma cambiate quel tanto che basta da renderle interessanti. È come guardare la stessa grande sinfonia eseguita da persone diverse».
La gioventù, New York, l’università
«Ricordo che Daredevil: L’uomo senza paura era uscito da poco e che Matt Murdock frequentava la Columbia. Mi dissi che se Daredevil andava alla Columbia, allora sarebbe andata bene anche per me.»
Se ancora non lo avete capito, Tom King era (è) un nerd di quelli che oggi sembrano dei simpatici stereotipi, ma che all’epoca erano dolorose realtà. Un super nerd, si definisce lui: «Non ero bravo a lanciare cose verso altre cose, non ero capace di fare canestro, non ero granché a correre. Mi riusciva difficile anche fare amicizia». E cosa c’è di più nerd che iscriversi a una certa università anche e soprattutto perché è l’università frequentata da uno dei tuoi supereroi preferiti?
Il patto stretto anni prima con la madre dà i suoi risultati: i voti di Tom sono abbastanza buoni da aprirgli le porte della prestigiosa Columbia University, una delle otto università americane che compongono l’elitarissima Ivy League. Trasferimento da Ovest a Est, da una costa all’altra, da un fuso orario all’altro, da Los Angeles a New York. Che sarà un caso (non lo è) ma è anche la città in cui hanno sede i due colossi del fumetto americano, Marvel e DC. «Volevo stare vicino a Marvel e DC perché speravo di lavorare lì, un giorno. Quindi sì, in effetti ci tenevo a frequentare un’università newyorchese».
Tom King non ha neanche vent’anni quando entra negli uffici di DC-Vertigo: è uno stagista, fa le fotocopie, lavora per gente come Cliff Chiang, Joan Hilty, Axel Alonso e Karen Berger. «I fumetti che facevano lì all’epoca erano Preacher e Transmetropolitan. Ero lì quando arrivò una pagina di 100 Bullets. Ero nella stanza quando Alonso parlò a Ennis del finale di Preacher e di come renderlo diverso dal finale di Swamp Thing».
Finito lo stage in DC, Tom King ne comincia un altro in Marvel, di un anno, accanto al leggendario Chris Claremont. «[…] Non mi ricordo quale fosse il suo ruolo all’epoca – creative editor o una cosa del genere – ma praticamente aveva il compito di controllare tutti gli script che arrivavano in ufficio, appuntarci sopra le sue impressioni e aggiungerci un tocco di “claremontness”. Se vi è mai capitato di parlare con Chris, sapete che è un uomo che ha un sacco di opinioni su un sacco di cose. Il mio lavoro consisteva nel sedermi di fronte a lui e ascoltarlo mentre esaminava gli script, li analizzava nel dettaglio, dicendo cosa funzionava e cosa no».
Quello è anche il periodo in cui Tom King vende il suo primo script per una storia del Cavaliere Nero. Assegno da 500 dollari e picco d’autostima per lo sceneggiatore in erba, ventunenne ormai convintosi di essere il prossimo Jim Shooter.
Tra sei mesi i fumetti saranno morti
Tra Tom King e il suo sogno si mette però il bilancio in profondo rosso della Marvel: nel 2000 la Casa delle Idee dichiara bancarotta, e il cielo sopra il fumetto americano si fa plumbeo.
Per sua fortuna (e grazie all’insistenza della madre), Tom non ha messo tutte le sue uova in un paniere solo: «C’era ancora mia madre a dirmi sempre “fai l’avvocato, fai l’avvocato” […] Così decisi di andare a lavorare per il Department of Justice e specializzarmi in legge». Lì King lavora su un programma istituito per aiutare malati di cancro a pagare le spese mediche. I fumetti restano la sua passione, ma l’età adulta lo costringe sempre più spesso a tenere nascoste, segrete, le sue vergone di nerd.
Tiene a bada la sua ossessione per la narrativa ingozzandosi di romanzi di ogni genere ed epoca: Tolstoj e Hemingway, Turgenev e Fitzgerald, Asimov e Bradbury. In ufficio conosce la donna che poi diventerà sua moglie: lavorano assieme e studiano assieme, entrambi si preparano per il Law School Admission Test (LSAT), entrambi lo superano. A questo punto della sua vita l’avvocatura pare proprio il suo futuro: è pronto a partire per l’Università della Virginia e completare il percorso accademico tanto caro alla madre.
Tom King, l’11 settembre, la CIA, l’Iraq
Ma anche questa volta un evento traumatico sconvolge i piani di Tom King: l’11 settembre 2001. Il Presidente degli Stati Uniti George W. Bush dichiara guerra al terrorismo e in pochi anni manda una generazione di ragazzi a combattere i Talebani in Afghanistan e Saddam Hussein in Iraq.
Tra questi ragazzi c’è il poco più che ventenne Tom King. «È stata la Pearl Harbor della nostra generazione. […] Io sono stato cresciuto da mia nonna, che durante la Seconda guerra mondiale fu una delle tantissime donne che andarono a lavorare nelle fabbriche. E ricordo come lei raccontava la sua generazione, mio nonno che va a combattere. E io mi ritrovai a pensare “Okay, abbiamo vissuto una Pearl Harbor. Che cosa si fa dopo Pearl Harbor? Ci si arruola”».
King mette da parte la Law School ed entra nella CIA, nella quale presterà servizio per i sette anni successivi, gran parte dei quali trascorsi tra Iraq, Pakistan e Afghanistan. «Il mio lavoro consisteva grossomodo nel reclutare persone da infiltrare all’interno delle cellule terroristiche».
Non può raccontare granché dei suoi anni come operativo CIA: gli ex agenti sono tenuti a rispettare una regola che vieta di rivelare troppi dettagli delle loro missioni, per ovvi motivi di sicurezza (loro, dell’agenzia, del Paese) e riservatezza. Quando si sforza di riassumere questi sette anni, il meglio che gli esce (o forse tutto quello che si può permettere) è «il più grande onore della mia vita». Quando è in vena di confidenze/confessioni, dice di essere semplicemente «[…] un tizio che ha cercato di fare qualcosa in Afghanistan e in Iraq, e alla fine le cose si sono rivelate più complicate di quanto immaginassi».
In quest’ultima frase si trova uno dei temi ricorrenti della narrativa di Tom King: la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni. Le sue sono spesso storie di migliori intenzioni che portano ai peggiori risultati, i suoi personaggi sono sempre uomini di buona volontà che si ritrovano a essere agenti del male nonostante il desiderio di fare del bene.
È un tema presente in tutte le opere di Tom King ma in particolare nella “trilogia delle buone intenzioni”, come lo stesso autore ha ribattezzato il trittico composto da Omega Men, Visione e Sheriff of Babylon: nel primo il tema si intuisce, nel secondo si definisce, nel terzo si compie. «Quando arrivai lì, circa un anno dopo l’inizio dell’invasione, la questione non era più politica. La gente non si preoccupava troppo della politica, cercava solo di fare la cosa giusta e ogni volta che ci provava tutto andava in frantumi», dice Tom King raccontando la sua prima impressione dell’Iraq.
La voce del suo curriculum che dice “agente CIA” è (ovviamente) spesso argomento di discussione nelle interviste rilasciate dallo sceneggiatore, nonostante i suoi tentativi di sminuire ricordando che anche altri grandi fumettisti avevano trascorsi militari: a chi gli ricorda l’eccezionalità di un agente segreto che diventa fumettista, lui risponde «Jack Kirby ha combattuto contro i Nazisti. Jim Starlin ha fatto la guerra in Vietnam». E uno pensa: «Tom, complimenti per l’umiltà, ma loro vivevano in tempi di leva obbligatoria».
L’eccesso di umiltà pare essere un tratto caratterizzante della persona – o del personaggio – Tom King. Tre indizi per fare una prova: a chi gli chiede di descrivere il suo stile di scrittura, lui risponde «non credo di avere uno stile, credo si tratti più che altro di tic narrativi»; a chi gli chiede del suo processo creativo, lui risponde «quando scrivo, nella mia mente vedo le immagini e non le parole. Il fumetto è un medium visivo. Il mio lavoro consiste nell’evitare di coprire le immagini»; a chi gli chiede del suo rapporto con i disegnatori, lui risponde che «bisogna fidarsi dei disegnatori» e spiega che cerca di interferire il meno possibile con il loro lavoro, scrivendo l’indispensabile, evitando di ingabbiarne la creatività con indicazioni su disposizione/dimensione delle vignette e cose simili.
Ma digressioni inevitabili e curiosità comprensibili non sono l’unica eredità che quei sette anni da spia hanno lasciato a Tom King. Se ogni conversazione con/su l’autore, in un modo o nell’altro, in un momento o in un altro, passa per quella tappa della sua esistenza è perché la guerra è un tema centrale (quando non è proprio il tema fondamentale) di molti dei suoi lavori. Un tipo particolare di guerra, oltretutto: non quella in campo aperto dei soldati, ma quella sotto copertura delle spie; non (solo) quella dei proiettili e delle bombe, ma (anche) quella delle informazioni estorte e dei segreti mantenuti; non (più) la risposta patriottica all’attacco dell’Asse del Male, come disse il presidente Bush Jr., ma il conflitto interiore di uno che era partito certo delle risposte e che è tornato sfibrato dalle domande.
Tom King è l’autore che scrive l’ultimo numero di Nightwing (il #30) e che trasforma l’ex Robin Dick Grayson nell’Agente 37, una spia in lotta con l’organizzazione terroristica Spyral. Nei dodici numeri di Omega Men scritti da Tom King, Kyle Rayner viene catturato, privato dei suoi poteri e coinvolto in un rete terroristica che si oppone a un enorme impero galattico.
E poi c’è Sheriff of Babylon, un’opera semiautobiografica che Tom King stesso ha definito un tentativo di mettere ordine ai suoi ricordi iracheni, di dare un senso a quegli anni mediorientali. Qui la guerra, il tipo di guerra di cui si parlava prima, è trattata con un realismo e una compiutezza impossibile nei titoli citati prima, in parte per volontà dell’autore, in parte per limiti del genere supereroistico, in parte per le differenze tra i pubblici di riferimento.
Realismo e compiutezza che stanno tutti in una scena e in un dialogo, perché un tratto distintivo delle grandi opere è che si possono sempre ridurre a uno (una scena, una canzone, una vignetta, una frase): a un certo punto, Chris, un ex-poliziotto americano, contractor dell’esercito, in Iraq per addestrare la futura polizia locale, e Fatima, moglie di Nassir, un ex poliziotto sotto il regime di Saddam, si ubriacano e parlano dell’11 settembre.
Chris dice che pochi anni prima dell’attentato interrogò uno dei terroristi, ignaro di cosa quell’uomo avrebbe fatto. Fatima ammette di aver festeggiato l’attentato agli USA, perché le sanzioni americane contro l’Iraq le avevano reso difficile reperire beni di prima necessità. Dopo questo scambio di confessioni, Chris e Fatima capiscono di condividere una speranza: vogliono che tutto quello che hanno visto e tutto quello che hanno passato abbiano un significato. «Dovrebbe avere un senso», si dicono. La guerra ha un senso? La guerra può avere un senso? Se non ce l’ha, cosa facciamo con i perché che ci restano quando le armi tacciono?
Il ritorno a casa, i bambini da crescere, un romanzo da scrivere
Tom King torna a casa: a salutarlo il giorno della partenza c’era una fidanzata specializzanda in legge, ad accoglierlo il giorno del ritorno c’è una donna che ora fa l’avvocato di mestiere. Una donna che lo ha sostenuto quando lui ha deciso di entrare nella CIA, che ha accettato una proposta di matrimonio fatta nelle tre settimane libere tra la fine dell’addestramento e la partenza per l’Iraq, che lo ha aspettato ed è andata avanti allo stesso tempo.
«Potrei parlare di mia moglie all’infinito. Tutto quello che ho ottenuto e che otterrò […] è tutto per lei. Il mondo comincia e finisce con lei. Non potrei lavorare senza di lei».
A una prima occhiata, il rapporto tra Tom King e sua moglie può sembrare una nota sdolcinata in una biografia altrimenti “machissima”. Ma a leggere con un briciolo di attenzione i fumetti che ha scritto fin qui, si capisce come il matrimonio sia un altro dei temi a lui più cari: Visione racconta il tentativo di un eroe veterano di costruire (in senso letterale) una famiglia e una vita fuori dall’Avengers Tower; una larga parte del suo Mister Miracle è dedicata al rapporto tra Scott e Barda; del suo Batman, ha generato molta eco soprattutto la proposta di matrimonio di Bruce Wayne a Selina Kyle nel numero 24 della serie.
E come con la guerra e il matrimonio (e quindi la famiglia e l’amore) che Tom King racconta è di un tipo preciso: cosa tiene assieme Visione e Virginia, Scott e Barda, Bruce e Selina? Si tratta di tre uomini (un uomo, un androide e un dio, a esser precisi) spezzati da anni di battaglie che in queste donne trovano quell’attimo di serenità senza il quale diventa sempre più difficile combattere il Sinistro Mietitore, affrontare Darkseid, salvare Gotham. Quando Visione decide di “diventare umano” e realizzare il sogno americano, costruisce sua moglie Virginia. Quando Scott è costretto ad affrontare le ragioni e le conseguenze del suo tentato suicidio, è la moglie Barda a stargli accanto. Quando Bruce si dichiara a Selina, le dice «quando ti bacio, il dolore sparisce». L’amore che Tom King fa vivere ai suoi eroi è salvifico e redentore.
Non ci è dato sapere quali e quanti segni abbia lasciato la guerra sul corpo e nella mente di Tom King, ma sappiamo che è umano e che quindi i segni ci sono. Non sappiamo quante e quali difficoltà abbia affrontato tornando alla vita da civile dopo anni trascorsi da “operativo”, ma sappiamo che è umano e che quindi le difficoltà ci sono state. E da come Tom King parla di sua moglie, sappiamo anche che la serenità di cui aveva bisogno in questo momento di transizione gliel’ha data lei: «Mia moglie è una tipa tosta. Non credo che nessuno abbia mai amato qualcuno come io amo mia moglie. E io e lei, assieme, ne abbiamo passate parecchie».
Di certo, non sarà stato facile decidere cosa fare della sua vita: finire la specializzazione in legge e diventare un avvocato? Continuare a lavorare per il governo? Provare un’altra volta, l’ultima volta, con la scrittura? Certo è che gli anni della guerra lo hanno costretto ad accettare quella che stava per diventare la sua carriera come un sogno quasi irrealizzabile: «Ormai pensavo che diventare uno scrittore fosse una cosa impossibile. Pensavo fosse un sogno che nessuno realizza».
A questo punto (siamo nel 2007) King lavora ancora per la CIA: in un ufficio a Washington, assieme a una squadra composta dalla crema dell’antiterrorismo americano, lavora per impedire un altro 11 settembre. È un mestiere che gli piace e che paga bene, e la sua vita sembra aver preso definitivamente questa direzione. Ha ripreso a leggere i fumetti dopo anni di pausa forzata, ha cominciato ad ascoltare podcast come iFanboy, Around Comics, WordBalloon e Comic Geekspeak, ha conosciuto autori coetanei come Brian Michael Bendis, Mark Millar, Brian K. Vaughn e Warren Ellis… Ma ormai i fumetti sono solo una passione, la carriera di scrittore una cosa che avrebbe potuto essere ma che poi non è stata. Eppure c’è una frase di Brad Meltzer, sentita in uno di questi podcast, che gli torna in mente in continuazione: «La vita è troppo breve per passarla indossando una cravatta».
Ma, anche questa volta, succede una cosa che cambia tutto: sua moglie rimane incinta. Da figlio di un padre assente, la notizia della prossima paternità ha su Tom King un effetto particolare: certo lo riempie di gioia, ma lo costringe anche ad affrontare questioni abbandonate dall’infanzia, lo porta a vedere il tempo come una risorsa preziosissima di cui in quel momento ha riserve scarsissime.
Il lavoro alla CIA lo tiene fuori casa sette giorni su sette, certe volte anche per diciotto ore al giorno. King sa che per lui non sarà possibile conciliare questo lavoro e la paternità, e quindi fa una proposta a sua moglie: «E se tu continuassi a lavorare e a casa con il bambino ci stessi io? Di giorno baderei a lui, di notte scriverei». All’inizio la cosa sembra assurda (come si fa a far quadrare i conti, così?), ma col passare del tempo la proposta diventa una decisione. Dalla sera alla mattina, Tom King lascia il lavoro e diventa uno “stay at home dad”.
«Il giorno lo passavo con mio figlio. Poi, dopo che mia moglie andava a dormire, io cominciavo a scrivere: da mezzanotte fino alle tre, tutti i giorni, una pagina al giorno». Una pagina al giorno, finché non ce ne saranno abbastanza da farci un romanzo. Dopo mesi di lavoro notturno e studio diurno («Ho passato tre settimane a studiare manuali di grammatica, perché credevo di non saper usare la virgola e il punto e virgola e tutta quella roba. E poi sono passato a manuali su come si scrivono i dialoghi, poi a quelli su come si scrivono le trame e tutto il resto»), l’opera prima è terminata: A Once Crowded Sky, un romanzo di supereroi che perdono i superpoteri, con le illustrazioni di Tom Fowler, editore Simon e Schuster. Le recensioni sono ottime (su The A.V. Club si fanno addirittura i paragoni con Watchmen), le vendite pessime.
Un flop grave due volte per Tom King: la prima perché ha scritto un romanzo che non ha letto nessuno, la seconda perché per lui questo libro avrebbe dovuto essere il biglietto da visita da presentare agli editori di fumetti. L’idea del romanzo come tappa per arrivare al fumetto gli era venuta ascoltando (in uno di quei podcast di cui si parlava prima) la storia di Brad Meltzer: prima di andare a lavorare per la DC, Meltzer aveva scritto anche lui un romanzo, che poi aveva presentato all’editore come un biglietto da visita. L’unica differenza tra Meltzer e King è che il romanzo del primo lo hanno comprato in tanti.
The freelance dance
Comincia a questo punto la “freelance dance”, come la chiama Tom King: comprare su Amazon tante copie del suo romanzo a 14 dollari, rivenderle alle fiere del fumetto piccole, medie e grandi a 15, sperando nell’occasione di presentarsi a un editor di questa o quella casa editrice, di fargli leggere il libro, di potergli proporre un’idea.
«Fu Cliff Chiang, che già conoscevo e che avrebbe dovuto curare le illustrazioni del mio romanzo se non l’avessero chiamato a lavorare su Wonder Woman, a far ripartire la mia carriera. […] Lui era alla DC e mi diede una lista di sette editor e mi disse di mandar loro una mail, facendo il suo nome in modo da evitare che mi prendessero per pazzo». L’unica risposta positiva arriva da Karen Berger, una con un discreto fiuto per il talento: Gaiman, Morrison ed Ellis sono sue scoperte, Moore un bel pezzo della sua carriera americana lo deve a lei.
Berger affida King a Mark Doyle, uno dei suoi assistenti («Un genio di editor», lo definisce King). E grazie a Doyle King pubblica Time Warp, il suo primo fumetto: «Era la storia di un crononauta che torna indietro nel tempo e uccide Hitler. Ma invece che raccontata dal punto di vista del crononauta, la storia era raccontata attraverso gli occhi della sorella di Hitler, che vede uccidere il fratello e non capisce perché. […] Sono molto orgoglioso di quella storia».
Time Warp piace abbastanza ai critici ma non aiuta granché King a farsi conoscere nell’ambiente. «Ero alla canna del gas. In mano avevo una storia di otto pagine e un libro pubblicato ormai due anni prima. Niente, in pratica». Avendo dei figli da mantenere, King si rassegna a fare una cosa che si era ripromesso di non fare: parlare della guerra.
È in questo momento che comincia a lavorare su quello che diventerà Sheriff of Babylon, uno script che propone sia a Doyle che al suo agente letterario. Entrambi gli dicono che l’idea è buona e di continuare a lavorarci, King li accontenta e scrive una bozza di romanzo e una sceneggiatura di fumetto. Quest’ultima finisce sulla scrivania di Dan DiDio (co-publisher della DC assieme a Jim Lee), che prima di cestinarla si ferma un attimo per chiedersi chi diavolo sia questo Tom King.
Di agenti segreti, androidi e lanterne
«La mia fortuna fu la promozione di Mark [Doyle, il suo editor, ndr] a capo del gruppo che lavorava sui titoli di Batman, che proprio in quel periodo stava lavorando alla trasformazione di Grayson in una specie di spia.»
Nelle storie di successo arriva sempre il momento di raccontare un fatto importante per il trionfo finale del protagonista che però nulla ha a che fare con il talento, la pazienza, la perseveranza dello stesso. Sono aneddoti fondamentali per tutti noi che di successo non siamo, perché ci permettono di ignorare il talento, la pazienza e la perseveranza del protagonista e di ridurre la differenza tra noi che siamo qui e lui che è lì a una semplice, inaspettata, immeritata botta di culo. Nel caso di Tom King, la botta di culo propedeutica al successo è la promozione del suo editor Mark Doyle.
Dopo due anni di pellegrinaggio tra convention e uffici di editor, finalmente fare fumetti diventa per King un mestiere: pagamenti regolari e consistenti e una testata importante sulla quale lavorare, ovvero Grayson. La serie è un gran successo, piace alla critica, piace ancora di più al pubblico, perché è una serie che reinventa il personaggio e lo mette in una situazione per lui inedita: dopo un’infanzia da sidekick sgargiante, un’adolescenza da vigilante solitario, per Dick Grayson l’età adulta significa inscenare la propria morte e diventare Agente 37, spia al servizio di Batman nella lotta contro l’organizzazione terroristica Spyral.
Il tono scanzonato della narrazione riesce a stemperare la drammaticità della premessa, trasformando un potenziale Jason Bourne in James Bond e un mondo di grigiore morale e scelte complicate in uno sgargiante carosello di acrobazie e umorismo. E poi gioca con la sensualità e sessualità di Dick, universalmente considerato il “sexiest man alive” del mondo dei supereroi.
Dopo il successo di Grayson, la DC affida a King il revival di Omega Men. Si tratta di un super-gruppo creato da Marv Wolfman e Joe Staton nel 1981. Gli Uomini Omega di King vengono recensiti benissimo ma cancellati prestissimo: le vendite non sono granché e la DC decide di farne a meno dopo appena sei numeri. Poi però l’editore ci ripensa, resuscita la serie e promette che durerà almeno fino al numero 12, con il co-editor Jim Lee che arriva a definire «un tantino frettolosa» l’iniziale cancellazione.
Ma l’opera che permette a King di passare dal rango di giovane promessa a quello di solida realtà è Visione. «[…] Avevo la squadra giusta: Gabriel Hernandez Walta, Jordie Bellaire, Clayton Cowles e Will Moss. Mi facevano fare davvero bella figura. Fu quella la grande svolta della mia carriera, il momento in cui la gente cominciò a dire “Oh, quindi Tom ha anche questa freccia nella sua faretra”».
E dire che quando Will Moss lo contatta per proporgli una collaborazione con la Marvel, King è convinto che gli chiederà di lavorare sul Soldato d’Inverno, visto quanto sta facendo in quel periodo su Grayson. La proposta di lavorare su Visione all’inizio lo spiazza, perché che storia si può raccontare attraverso l’androide dei Vendicatori?
Alla fine accetta, e ne viene fuori un fumetto considerato come uno dei migliori del 2016, uno dei racconti più tristi, originali e intelligenti che il genere supereroistico abbia prodotto negli anni Duemila, uno dei pochi diamanti nell’ammasso di fondi di bottiglia della Marvel tutta nuova e tutta diversa, il compimento di quel tentativo di umanizzazione del personaggio cominciato da John Byrne nel 1989 con la storyline dei Vendicatori della Costa Ovest Alla ricerca della Visione.
I Am Batman
Visione scaraventa Tom King in cima alla graduatoria dei giovani autori da accaparrarsi prima che lo faccia la concorrenza. A spuntarla è la DC, che gli offre un contratto in esclusiva, totale controllo creativo sui titoli di cui si occuperà e, soprattutto, decide che sarà lui a curare il quindicinale Batman dopo Scott Snyder. È un’offerta che non si può rifiutare: appena tre anni dopo l’esordio fumettistico con Time Warp, King diventa lo sceneggiatore di Batman.
Last night I went hitchhiking with Frank Miller. pic.twitter.com/uWPiaAIcB3
— Tom King (@TomKingTK) July 20, 2018
Curare la principale testata dedicata al Cavaliere Oscuro è una responsabilità tanto più grossa quanto migliore è stato il lavoro di chi ti ha appena preceduto: non solo devi essere all’altezza del personaggio in generale, ma devi anche essere all’altezza del personaggio nella sua ultima iterazione, quella più fresca nella memoria dei lettori, quella con cui è più facile fare paragoni, quella che si fa presto a rimpiangerla.
Curare la principale testata dedicata al Cavaliere Oscuro dopo il ciclo di Scott Snyder e Greg Capullo è una responsabilità grossissima: Anno zero, Morte della famiglia e Gioco finale; Batman e Joker che combattono fino alla morte; Bruce e J. che chiacchierano su una panchina; Batman che ammazza leoni a mani nude, che prende a cazzotti Nightwing, che stende tutta la Justice League; Jim Gordon che diventa (robo)Batman; Joker che massacra un intero commissariato di polizia; gli Artigli e la Corte dei Gufi… Insomma, la run di Snyder e Capullo è stata piena di momenti che hanno lasciato un segno nel mito di Batman.
«È un personaggio che non ha bisogno di rinascere. Non ha bisogno di essere aggiustato. Batman non è rotto nei Nuovi 52. Non era rotto nemmeno prima dei Nuovi 52. Scott lo ha scritto come meglio non si può. Credo che il mio lavoro consista semplicemente nel non rovinare quanto fatto da Scott. Devo solo costruire a partire da questo. E nel farlo, devo metterci qualcosa di mio, perché l’unico strumento che ho a disposizione sono le mie esperienze, le mie opinioni riguardo al personaggio, che cosa ha significato e che cosa significa per me adesso. Non è una questione di rinascere, piuttosto di continuare l’eccellenza della serie», dice King prima di mettersi a lavorare sul primo numero del suo Cavaliere Oscuro.
Poco dopo aver accettato l’offerta della DC, King è invitato a pranzo da MarK Waid. Invito graditissimo e pranzo piacevolissimo, almeno finché Waid non pensa bene di ricordargli che «[…] Sono state scritte più storie su Batman che su qualunque altro personaggio, e tu devi scrivere la prossima». Di sicuro l’intento di Waid è incoraggiare, ma l’effetto è purtroppo uno sfiorato mancamento di King.
Ma per quanto ansiogena, la chiacchierata con Waid aiuta King a chiarirsi le idee: se di Batman è stato già raccontato tutto in tutti i modi, per fare un ciclo eccellente basta raccontare una storia che nessuno ha mai raccontato prima, in un modo che nessuno ha immaginato prima. Proprio come nessuno aveva mai immaginato Dick Grayson che diventa un agente segreto, Visione che si fa una famiglia nei suburbs americani o Scott Free che tenta di sfuggire alla morte stessa. E qual è la cosa che nessuno di noi si immagina per Batman? Pace, felicità.
Ed è proprio da qui che parte la storia del Batman di King: dalla ricerca della felicità, dal tentativo di trovare pace. «Tutti hanno perso una persona amata, tutti hanno vissuto una tragedia. E per quel che ne so, nessuno se ne va in giro di notte, vestito da pipistrello, a picchiare criminali, giusto? […] L’idea è: perché la sua tragedia lo ha cambiato in quel modo, ed è possibile per lui superarla? È possibile per Batman piangere una perdita? E ovviamente è una storia che parla di tutti noi e di come trasformiamo in trionfi le tragedie e gli incidenti delle nostre vite».
Siamo abituati a considerare il Cavaliere Oscuro come l’unica o la più importante o la più interessante conseguenza di quella tragica notte in Crime Alley. Siamo certi che non ci sia niente della “origin story” di Batman che non conosciamo o non abbiamo visto o non abbiamo immaginato. King cancella questa nostra convinzione nel dodicesimo numero della sua run, che degli oltre 50 numeri sui quali ha messo la firma fino a questo momento è quello narrativamente, emotivamente, tematicamente più ricco.
È qui che Bruce Wayne confessa di aver tentato il suicidio quando aveva appena dieci anni, distrutto dal dolore della perdita dei genitori e schiacciato dal senso di colpa che perseguita i sopravvissuti. «Ero dolore. […] E a che cosa serve essere dolore? A cosa serve essere solo dolore?», dice Bruce su Batman #12. «Presi uno dei rasoi di mio padre e mi inginocchiai. Il grattare della lama fredda. Il sangue sulla mia mano. E volsi lo sguardo verso l’alto. Verso mia madre e mio padre. Dissi loro che mi dispiaceva. Ero così dispiaciuto. Ero in ginocchio in mezzo a Gotham. E pregavo, le mani giunte, il sangue e la lama calda in mezzo. Pregai. E non rispose nessuno. Ero solo. Come tutti. Come tutti quanti a Gotham, vedevo tutta quanta Gotham, tutti noi. Siamo tutti in ginocchio, le mani giunte, il sangue e la lama calda in mezzo. Preghiamo e nessuno risponde. Vidi e capii. Finalmente. Gentilezza. Dignità. Lasciai cadere il rasoio e capii, era fatta, l’avevo fatto, mi ero arreso. La mia vita non era più la mia vita, e sussurrai: “Giuro sulle anime dei miei genitori di vendicare le loro morti passando il resto della mia vita a combattere il crimine”. È tutto qui. Le orecchie, la cintura, il gargoyle. Non è divertente. È la scelta di un bambino. È la scelta di morire. Io sono Batman. Io sono suicida».
Con queste ultime tre parole, King crea il suo Batman, uguale e diverso da quello degli autori che lo hanno preceduto, da quello che i lettori hanno conosciuto fino a quel momento. Con queste ultime tre parole, King mette in pratica la lezione appresa tanti anni prima leggendo Frank Miller e Alan Moore: tante storie, nei fumetti, sono sempre le stesse storie ma cambiate quel tanto che basta da renderle interessanti. Con queste ultime tre parole, King piega il personaggio al suo credo narrativo: «Tutte le storie sono storie di personaggi che cambiano». Persino Batman può e deve cambiare, perché altrimenti non è un personaggio da raccontare (e quindi una cosa viva, vera, presente) ma un idolo da adorare, morto, finto, passato.
«Batman non è mio. Non appartiene a me soltanto. Come personaggio appartiene innanzitutto al pubblico, poi ai centinaia di autori che lo hanno raccontato per 75 anni. In questo numero [il dodicesimo, Ndr] credo di aver continuato a costruire sulle fondamenta messe da loro, ho chiarito un’idea che tiene assieme gli autori di Batman da Bill Finger a Scott Snyder passando per Steve Englehart. È l’idea è che quando Bruce Wayne fece quel voto, in un certo senso quella fu la sua fine. Bruce Wayne divenne la maschera e Batman l’eroe. Ovviamente non è una cosa originale, ma credo che Batman per me sia questo. E ho messo assieme questa convinzione con la mia esperienza personale, l’esperienza di sentirmi escluso, di sentirmi isolato dal mondo, di arrivare a fare pensieri simili a quelli che fece Bruce Wayne in quel momento.»
Dopo il #12, il Batman di Tom King diventa uno dei titoli irrinunciabili tra le decine che ogni mese affollano le edicole e le fumetterie americane: la critica apprezza, il pubblico compra, l’editore è soddisfatto. Oggi abbiamo superato il #50 (con la deludente storia del matrimonio tra Batman e Catwoman) e nei programmi di King c’è una run di cento numeri.
Ora scrive con la tranquillità di chi sa che «chi verrà dopo di te cancellerà tutto quello che hai fatto. È la lezione più utile per chi lavora in questo settore». Ora litiga con gli editor con quella sicurezza che solo il successo può dare.
In un’intervista rilasciata a Slate racconta di un litigio furibondo avuto con il suo editor storico, Mark Doyle. «In Batman #24 ci sono due editor nei credits, perché abbiamo cambiato editor a metà del lavoro… Non è una cosa normale, è molto strano. […] Lui [Mark Doyle, Ndr] voleva un disegnatore che però non aveva mai lavorato con noi prima, io sapevo che questo era un momento importante, la proposta di matrimonio di Batman a Catwoman, ci sarebbe stata quella stupida immagine su Twitter e io volevo che quell’immagine la disegnasse David [Finch, ndr]. “No, no, David è in ferie”, diceva lui, “Chiamalo e basta”, rispondevo io, abbiamo litigato e alla fine abbiamo cambiato editor, i disegni li ha fatti David e Jamie Rich è diventato il nostro nuovo editor. Questa è una cosa che non avevo mai potuto fare prima nella mia carriera. Puntare i piedi, per così dire, è una cosa che ti puoi permettere solo se hai avuto molto successo… All’inizio un autore non ha nessun potere, sei alla mercé degli editor, sono loro che decidono tutto.»
Ora vive con la felicità di chi sta facendo esattamente quello che vuole fare: «Sto vivendo il mio sogno. Non ne ho nessun altro oltre quello che sto già vivendo».
Tom King: “miracle worker”
Dopo Batman, a King viene affidata una miniserie di 12 numeri con protagonista Mister Miracle, alias Scott Free, figlio del divino Altopadre ma anche di Darkseid, nato sul paradiso di Nuova Genesi ma cresciuto nell’inferno di Apokolips, uno degli dèi del Quarto Mondo creato da Jack Kirby negli anni Settanta (tra il 1970 e il 1973, per la precisione).
Si potrebbero scrivere migliaia di battute su cosa Kirby sia stato per il fumetto supereroistico americano e per il fumetto in generale, ma alla fine tutto si ridurrebbe a una parola: genio. Che è poi il primo aggettivo usato da Tom King parlando di The King e di Mister Miracle: «Sto rileggendo tutto Kirby, che significa avere a che fare con un genio. Nessuno può fare quello che ha fatto Kirby come lo ha fatto Kirby. Non si può scrivere un racconto epico grande come quello ha scritto lui. Sarebbe come provare a rifare Star Wars o a riscrivere l’Iliade».
Sembra l’esagerazione di un fan, ma chiunque abbia letto i fumetti del Quarto Mondo, la metaserie che raccoglieva Mister Miracle, Nuovi Dei e Forever People, sa che non è così. Libero dai legacci di editori invadenti, di co-autori ingombranti e di mondi, eventi e personaggi preesistenti, Kirby creò un universo (letteralmente un universo), raccontò una cosmogonia, fece la cronaca di una teomachia.
In tre anni appena The King creò un fumetto che avrebbe appassionato e influenzato tanti, ma che nessuno è mai riuscito né ad avvicinare né tanto meno a uguagliare. La miccia creativa intravista nelle pagine di Thor e dei Fantastici Quattro qui si consuma e fa esplodere la bomba che è l’immaginazione di Kirby: il Quarto Mondo è raccontato con sequenze di immagini mai viste prima e tratta temi come mito e religione con una profondità prima sconosciuta al fumetto di supereroi.
C’è solo un problema: è tutto troppo, sia per gli editori che per il pubblico dell’epoca. I fumetti del Quarto Mondo vendono poco e quindi hanno vita breve. Passò un decennio prima che la DC si rendesse conto della enorme eredità lasciatale da Kirby, ma dall’inizio degli anni Ottanta, da La Saga della Grande Oscurità della Legione dei Super-Eroi in poi, il Quarto Mondo è diventato un pezzo fondamentale dell’universo DC.
Per capirci: Darkseid se l’è immaginato Kirby, giusto per dirne uno. Riuscite a immaginare l’universo DC senza Darkseid (e i più informati di voi sanno che che anche quello Marvel sarebbe molto diverso, senza Darkseid)? E l’ultimo a rovistare nello scrigno del tesoro lasciato da Kirby è Tom King, mezzo secolo dopo. E in questo scrigno lasciato dal grande di ieri, il grande di domani (chissà) ci trova tutti gli strumenti per raccontare una storia sua, del suo tempo, per il suo pubblico. Perché il Quarto Mondo è un capolavoro, e i capolavori resistono alla prova del tempo, contengono tutto degli anni in cui sono stati creati ma hanno sempre abbastanza spazio per tutti quelli, tutto quello che è venuto e che verrà dopo.
Tom King sa bene che il confronto con Kirby non si può vincere, non se si gioca in casa del Re. E quindi prende il Quarto Mondo e lo rovescia: il retroscena diventa proscenio, e in questo modo il confronto diventa omaggio, invece di riscrivere si aggiunge, si ingrandisce un mondo infinito riducendolo ai pezzi più piccoli. La storia di Mister Miracle diventa la storia di Scott Free, la guerra degli dèi diventa la battaglia di un uomo, e quindi un racconto di amore, felicità, gioia, famiglia, identità, depressione, disperazione, vita, morte.
«Mitch Gerards e io volevamo fare un fumetto bello come Watchmen e The New Frontier, con dentro qualcosa che riflettesse i tempi che viviamo. […] Perché quando penso al momento attuale, mi sento un po’ come se fossi in trappola». E quindi, chi meglio del dio della fuga per raccontare la storia dalla quale tutti quanti vorremmo scappare? «In questo momento, si ha la sensazione di non avere via di scampo. E le regole che una volta pensavo avessero senso non ce l’hanno più, e sembra che siamo tutti quanti in questa situazione e che non ci sia modo di uscirne, di scappare».
Tom King dice anche che il contributo di un artista all’analisi collettiva non può finire con un “Fanculo, Trump”, sostiene che il dovere dell’artista sta di raccontare la paranoia dei nostri tempi in un modo, con dei mezzi che siano arte. Proprio come fece Kirby con il Quarto Mondo, che tra le altre cose è un memoriale agli anni Settanta come ce ne sono pochi.
Dodici numeri di Mister Miracle, si diceva più su. Dodici numeri per confrontarsi con un genio. Dodici numeri per dimostrare di sapere affrontare l’unicità di un autore e di un’opera, trovando così la propria. Dodici numeri per raccontare «la sensazione che tutti proviamo di convivere con l’assurdità, e che nonostante questo dobbiamo andare avanti». Dodici numeri per quella che Tom King definisce la più grande sfida della sua carriera. La sfida dal cui risultato forse capiremo se il ragazzo potrà ambire a diventare uno dei grandi del fumetto americano.