Nell’arco di poche settimane sono usciti in libreria due volumi visivamente molto diversi tra loro eppure simili negli obiettivi e, in buona parte, nei contenuti: La crepa di Carlos Spottorno e Guillermo Abril e La cicatrice di Andrea Ferraris e Renato Chiocca [qui un estratto].
Per diversi intendo diversissimi: uno è un fumetto, l’altro è – tu pensa – un fotoromanzo. Diversi anche gli esiti: uno è un autentico gioiello, l’altro un’opera ben documentata e interessante. Gli obiettivi sono però davvero identici, e ruotano intorno all’idea di raccontare uno dei grandi temi del presente – i migranti, e in particolare i loro viaggi con destinazione “mondo Occidentale” – utilizzando come chiave quel che accade lungo alcuni tra i più “caldi” confini di stato. Il libro di Ferraris e Chiocca parla di quello tra Messico e Stati Uniti, mentre quello di Spottorno e Abril si concentra sui molteplici confini dell’Europa “periferica” (Marocco/Spagna, Italia/Mediterraneo, Bulgaria/Grecia/Turchia, Serbia/Ungheria/Croazia, Lituania/Bielorussia, Polonia/Ucraina, Polonia/Russia, Estonia/Russia, Finlandia/Russia).
Quello che mi pare più interessante, però, l’ho messo nel titolo. Ovvero mi ha colpito l’idea che due libri tanto diversi per linguaggio, per estrazione culturale degli autori e per occasione – gli spagnoli sono giornalisti professionisti, e il libro nasce come reportage nel 2014 per il magazine El Paìs Semanal; gli italiani sono un fumettista disneyano e un videomaker documentarista, il cui progetto nasce dalla voglia di approfittare di una mostra a Los Angeles del precedente Churubusco di Ferraris, nel 2015, per visitare il Muro a Nogales – abbiano usato metafore del confine molto ‘grafiche’. Azzeccate e illuminanti, peraltro, o non sarei qui a scriverne. Ma anche opposte (cioè il vero motivo per cui ho pensato di presentarli insieme).
Un inciso. Diciamo pure che raccontare un tema come i migranti fa molto giornalismo classico, scritto, forse persino letterario, persino pedagogico. Ecco una prima ragione per apprezzare e suggerire la lettura di questi lavori: dicono tanto, in poco tempo, in un linguaggio – graphic/photo journalism – che non annoierà chi si annoia solo al pensiero (brutto a dirsi, ma tant’è) di consumare lunghi reportage-pistolotti su un tema che sì, ci riguarda, ma affatica (le coscienze, in primis). Questi due libri non solo dribblano i limiti del reportage di parola – lunghezza, pedanteria – ma evitano anche quelli del reportage televisivo – sensazionalismo, pietismo – e riescono persino ad aggiungere autentica potenza narrativa, nei punti di vista o nelle soluzioni estetiche. Se il vostro consumo di reportage sui migranti è scarso, o limitato alla stampa quotidiana, ve lo dico chiaramente: questi due libri vi sorprenderanno e – tu pensa – potreste addirittura emozionarvi.
In entrambe i libri, progettati da autori abituati a pensare visivamente, le frontiere sono segni che prendono forme grafiche, alla luce di “metafore della linea” richiamate qua e là: ne La crepa i frontespizi di ogni capitolo ospitano mappe di porzioni d’Europa, e sul finale emerge l’idea di crepe all’interno di una struttura, o in una lastra di ghiaccio; ne La cicatrice la linea è una, ed appare per ciò che la occupa, ovvero il Muro. Le linee di confine sono dunque raccontate non solo per ciò che separano, ma anche di per sé, in quanto segni “speciali” in grado di generare effetti sugli spazi a loro circostanti.
La cicatrice di Ferraris e Chiocca
La prospettiva sul confine di Ferraris e Chiocca dice, in particolare, questo: l’America è un corpo, e il confine tra Messico e Stati Uniti è una ferita suturata con un filo – che sarebbe il Muro (quello che Trump vorrebbe estendere) – e dei punti che, seguendo la metafora, sono quei luoghi in cui i migranti latinos tentano l’attraversamento. Talvolta morendo, talaltra riuscendo, talaltra ancora ferendosi in tentativi più o meno riusciti.
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La cicatrice racconta un viaggio dei due autori nella zona di Tucson in Arizona, e ricostruisce un episodio di attraversamento del Muro (con annesso omicidio ‘accidentale’) a Nogales in Messico. Sono storie crude, che testimoniano la durezza che accompagna le incredibili escursioni nel deserto alla ricerca di un passaggio sicuro, o la violenza del controllo poliziesco nei punti più caldi del grande Muro. Il confine non solo è una linea separatrice ma una linea che fa male, un dolore inflitto al “corpo” della società americana.
Per Ferraris si tratta di una riflessione quasi ossessiva, nutrita da interessi e passioni per il Messico che vengono da lontano (evidenti persino nella sua carriera Disney, come testimoniato dalle avventure di Topolino e Pippo “mariachi” avviate nel 2001 e proseguite nel 2004 e 2010). Nella breve storia per La Lettura del Corriere (9/09/2017, co-firmata con lo storico Carlo Greppi) Ferraris rende ancora più esplicita la metafora grafica della frontiera, riprendendola dai “coyotes” (le guide locali che accompagnano chi tenta l’attraversamento): «la chiamavamo “la linea” tra di noi. Dicevamo che avevano tagliato via l’orizzonte». Il fumettista disegna così una doppia pagina con una mappa dell’America cui è sovrapposto un enorme ritratto, attraversato/tagliato da una linea rossa che corrisponde al confine tra USA e Messico.
Nelle cinque pagine di una successiva storia breve per Internazionale (15/12/2017, co-firmata con Chiocca), Ferraris arriva a inquadrare alla perfezione la metafora visiva, disegnando un corpo morto proprio sul confine, tagliato dalla stessa linea rossa vista ne La Lettura. Il Muro è quella linea, e la metafora è tragicamente concreta: nel 2011 un uomo fu ucciso da un border patrol e ritrovato con la testa in Messico e le gambe negli Stati Uniti.
La crepa di Spottorno e Abril
Per Spottorno e Abril invece, i confini dell’Unione Europea sono elementi strutturali che si stanno degradando, col rischio che portino a sgretolarsi l’edificio sociale europeo. I confini che vedono loro, dunque, potrebbero – o dovrebbero – non esistere nemmeno, se l’edificio fosse in salute. Ma così non è, e individuano una “grande crepa”, ovvero la frontiera esterna, e tante altre “piccole crepe” collegate tra loro: «l’immensa voragine dei profughi, la breccia dei nazionalismi, la chiusura delle frontiere e la minaccia dell’uscita del Regno Unito dall’Ue, il populismo e l’islamofobia […] E poi c’è la Russia, un abisso enorme». Ciò che si inserisce in queste fessure rovinose non sono solo i flussi di persone, ma diversi oggetti, dispositivi, forze paradossali: muri, sistemi di videosorveglianza, organizzazioni militari (sia violente che coraggiose o comprensive), traffici.
La crepa è un libro ricco di passaggi palpitanti, per lo più drammatici, che non solo descrivono le diverse persone – criminali o innocenti – che ruotano intorno alle zone di frontiera, ma riescono a restituire il peso emotivo e politico di quegli oggetti e dispositivi.
Il filo spinato ‘a concertina’ della barriera di Melilla, le carrozze di un treno straripante in Croazia, gli alloggi di un campo profughi arredati con dignità, la disciplina di un militare della marina italiana pronto a gettarsi in mare per salvare naufraghi di un barcone, il surreale look di una famiglia afghana giunta in auto fino tra i ghiacci finlandesi. Nelle crepe si annidano i “residui” più disparati: alcuni sono frammenti di morte, altri sono segni di speranza.
Va dato atto infine che La crepa, rispetto a La cicatrice, fa anche un altro e diverso lavoro. Che nulla c’entra con la prospettiva sul confine né con il tema migratorio, ma che non si può non sottolineare: è un’opera esteticamente insolita ed elegante. Il linguaggio fotografico che utilizza è certamente funzione di un obiettivo giornalistico e documentaristico – testimoniare dei fatti – ma il trattamento digitale delle immagini lo trasforma in una direzione stilistica inconsueta. Ogni foto, in ogni vignetta, è stata manipolata con filtri di colore, desaturazioni e sgranature per mitigare la loro “durezza oggettiva”, dando al contempo una unità grafica al libro. Il risultato, pur senza balloons, appare paradossalmente più vicino al fumetto che alla fotografia. E di quelli destinati a conquistare un posto speciale in un’altra zona di confine: quella tra le arti (come già testimonia la sua rapida inclusione nella nuova edizione del testo di riferimento di Jan Baetens, Pour le roman-photo).
Raccontare i confini per raccontare i migranti, e non (solo) il contrario: ecco perché questi libri sono non solo interessanti, ma utili e persino sorprendenti. Per descrivere il fenomeno delle nuove migrazioni odierne serve non solo conoscere le ragioni dei viaggi e delle fughe (dalla guerra e dalla povertà, come sempre nella Storia) ma anche comprendere come la forma e la gestione dei confini influenzi gli sforzi dalle due parti. Sforzi per raggiungerli o per attraversarli, sforzi per mantenerli attraversabili o renderli insuperabili.
La forza delle metafore grafiche diventa quindi strategica per fare di questi racconti delle esperienze conoscitive compiute, originali e poetiche. La splendida installazione CARNE y ARENA (Virtually Present, Physically Invisible) del regista Alejandro Iñárritu, ora a Milano dopo il debutto a Cannes, rappresenta forse la punta più avanzata, oggi, del racconto artistico dell’esperienza di attraversamento del confine (anche qui quello tra Messico e Usa). Ma nei progetti di Spottorno e Ferraris c’è qualcosa che a Iñárritu manca, per le ovvie differenze tra realtà virtuale e pagine stampate, ma anche per l’approccio conoscitivo: non tanto il simulare teatralmente l’esperienza del dramma, bensì il fare convivere allegoria (cartografica) e informazione (geopolitica). Una frontiera percettiva più sottile e più suggestiva.