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“Coco”, la recensione del nuovo film Pixar

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Cosa si fa quando si esce dal cinema, è sera e fa freddo, e non sai neanche da che parte cominciare a mettere insieme – figuriamoci raccontare – le emozioni che il film che hai appena visto ti ha suscitato? Fermati, apri il taccuino. Respira. Comincia a scrivere, prima di dimenticare.

Coco è un film che ti tocca dentro, profondamente, ti emoziona, ti sconvolge e ti sommerge. E non ti piacerà. Perché come me sei italiano, non sei messicano: sei superstizioso, della morte non si può parlare, figuriamoci scherzarci. Figuriamoci affrontarla, cercarvi una consolazione.

Però Coco è un film che parla esattamente di questo: della morte e dell’amore, del viaggiare nel tempo ma in una direzione sola, verso l’avanti. Perché la vita è fatta così: una membrana permeabile che consente di andare in una direzione sola. Come un tapis roulant che alla fine ci farà uscire tutti dal piano e scomparire nell’oblio.

Il protagonista di questo film è un bambino che vuole ribellarsi alla storia della famiglia: tornare alla musica e abbandonare il mestiere di calzolaio. Ma la sua famiglia lo tiene prigioniero in un quella professione, che è la prigione di tutti loro. Anzi, che è una difesa della metà femminile della vita, perché la metà maschile l’ha ferita e offesa con la musica, e fare il calzolaio è stata l’unica difesa possibile.

La storia raccontata da Coco, il nome della bisnonna del giovane Miguel, il protagonista, è una storia complessa, costruita tutta da piani sovrapposti in cui l’azione e la scoperta procedono di pari passo con interi mondi, intere galassie di senso. Un corso di psicanalisi completo, una storia potente e profonda, come solo la Pixar ci ha saputo regalare e che per la prima volta dalla fusione con Disney è tornata a fare di nuovo.

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Coco però non ti piacerà, perché è una storia che emoziona e fa piangere, ma non è per bambini e neanche per adulti. In Italia i film così i critici non li amano, diventano “feste per gli occhi”, e lasciano sul campo i sogni e le avventure di chi li ha immaginati. Dentro c’è un mondo che però non è adatto a un bambino di meno di dieci anni. Forse dodici. Ma neanche: c’è chi non è mai cresciuto e non potrà mai vederlo. Coco poi non è adatto neanche a un giovane genitore che cerchi di far quadrare i suoi sogni e le ambizioni di persona con i bisogni e gli affetti dei suoi figli. Non è facile perché Coco costruisce un universo molto semplice, duro e al tempo stesso quasi impossibile da gestire.

Coco infatti è un film adulto ma per bambini, e i bambini ci troveranno desideri di crescita e sete di giustizia. Ci troveranno anche sete di un desiderio particolare: quello di essere se stessi anche senza essere riusciti a capire chi si è realmente. E gli adulti? Loro ci troveranno le loro paure, quelle che congelano i cuori e li fanno parlare come i padri e i nonni.

Il tutto condito, anzi innaffiato, persino sommerso da un lirismo visivo che sconfina nel sogno e passa per archetipi delle nostre vite precedenti. La notte dei morti, la festa messicana costruita sopra le tradizioni indigene a tratti visibili, a tratti carsiche, in cui le anime senza più corpi dei defunti vengono a visitare i parenti ancora in vita, ammesso che questi ancora si ricordino di loro. Che sogno. Che festa. Che paura.

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Coco è però anche come un gigantesco orologio, un meccanismo narrativo dalle grazie visive e dalle musiche meravigliose e finissime, ma geometrico nell’anima del racconto, architettato con infinita pazienza attorno a riccioli di storia, chicchi di senso che però si animano e si incastrano come perfette tessere di un rompicapo. Tutto torna, tutto è utile e anche se la simbologia messicana passa in sordina, in buona parte sotto la linea della percezione (dopotutto è una cultura lontana e sconosciuta in Italia), del resto ce n’è tanto, anzi come si dice: più che in abbondanza.

Coco però non ti piacerà, perché non saprai trovare una via di uscita da quel mondo che per te, visto dall’Italia, dalla tradizione opposta e remota a quella del cattolicesimo ispirato e plasmato simbolicamente dal culto pagano dei nativi americani, diventa e sembra una gran carnevalata incomprensibile, con strane concessioni a una architettura visiva difficile da riconoscere salvo qualche sprazzo di razionalismo anni Trenta. Un mondo che forse agita le notti insonni di Donald Trump quando mangia troppo dal McDonald dietro la Casa Bianca, ma che di certo da millenni non agita più i suoi serpenti piumati nelle nostre notturne fantasie mediterranee.

Coco ti lascerà triste, solo, deluso, e sarà un tuo problema. Perché dopo che Coco ti avrà dimenticato, tu sparirai. Perché Coco è vera, e non ammetterlo vuole solo dire che non siamo più veri noi. Quindi, Coco, ovunque tu sia, qualsiasi cosa tu stia facendo, cantiamo insieme questa canzone: non ti dimenticare di noi.

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