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“Ghost in the Shell”: tutto guscio e niente anima

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Rupert Sanders, inglese classe 1971, finora ha diretto due film ed ha avuto l’opportunità di lavorare con due attrici ugualmente belle e “difficili” da usare con profitto. Non per una questione di carattere, perché sono delle professioniste di prima grandezza, o per mancanza di loro volontà, bravura o passione, ma a causa della loro stessa natura iconica. Sono talmente “ingombranti” e al tempo stesso “potenti”, oltre che brave, da richiedere un timoniere esperto per guidarle attraverso la storia e il personaggio. Altrimenti diventano delle patate lesse.

La prima è stata Charlize Theron, interprete della cattivissima regina di Biancaneve e il cacciatore (2012), pastiche dark fantasy della fiaba resa celebre da Walt Disney. Risultato scarso. La seconda è Scarlett Johansson, il Maggiore di Ghost in the Shell, appena uscito nei cinema italiani.

Ora, se c’è un problema con Ghost in the Shell (e il problema c’è, eccome), sta tutto lì: Sanders non ha saputo usare la Johansson. Ha scelto di fare un film di supereroi che sembra un fumettone proprio quando gli è stato proposto di fare il remake live action di uno dei più importanti manga e anime cyberpunk giapponesi. Occasione unica potentemente fraintesa. Oppure strano scherzo del destino (e della produzione), che hanno voluto l’antintellettualismo più spinto a raccontare la storia di una delle opere nipponiche più filosofiche e colte degli anni Ottanta e Novanta. Un po’ come mettere un negazionista del riscaldamento globale a capo dell’agenzia americana per l’ambiente. Come dite? No, non può succedere veramente, no?

Invece, le cose capitano. E mai da sole. C’è infatti il problema di Scarlett Johansson. Se c’era un’attrice da dirigere, plasmare e far muovere tirando i fili della regia quella era lei. La Johansson nella parte del Maggiore ci stava tutta, non solo perché è fisicamente adatta, ma anche perché è proprio brava e incarna come una bambola vudù il mito dell’eroina postmoderna che mena come un fabbro ma ha un volto ineffabile come una giovane Buddha.

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Invece il Maggiore/Johansson viene lasciato lì da solo a inventarsi la camminata sbruffona e un po’ saltellante di una che imita (o pensa di imitare) un fumetto, o lo sguardo torvo/accigliato di un manga esistenzialista. A metà del secondo quarto del film mi rendo conto che è fatto con una regia didascalica, estetica, costruita attorno a un personaggio di un’altra storia. È difficile imitare un anime: non basta l’attrice, ci vuole anche il regista. Sennò sembra un cartone animato, c’è l’effetto “uncanny valley” di Popeye (ve lo ricordate, il film con Robin Williams nella parte omonima, del 1980?) che fa prendere fuoco e bruciare tutto. Certo, mi dico mentre arrivo vicino alla metà delle quasi due ore della pellicola, le zampate ci sono, e poi c’è Takeshi Kitano, al quale si perdona tutto. Però, che occasione sprecata. Bisogna mettere un po’ d’ordine per capire cosa succede nel film.

Cominciamo dal manga, di cui ha parlato in maniera insuperabile il nostro Evil Monkey. Poi passiamo all’anime, approfondito su queste pagine da Andrea Fontana che ha anche intervistato Mamoru Oshii, regista dell’anime tratto dal fumetto di Shirow Masamune (si scrive così perché è un nome d’arte a composizione immutabile, sia in Oriente come in Occidente).

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Ecco, siete ancora qui? Cominciate a percepire i confini del problema? Ghost in the Shell è qualcosa di più che un fumetto e un cartone animato giapponese di successo. È un mondo. È una filosofia. È la risposta nipponica a La notte che bruciammo Chrome di William Gibson e a Blade Runner di Ridley Scott. Per cui prima del film dobbiamo fare una scelta che, se siete intenzionati ad andare a vederlo (come vi consiglio), spero vogliate prendere in considerazione.

Mettetevi comodi e pensate: cosa voglio vedere? Voglio vedere un film d’azione americano, che segue i cliché del genere super-eroistico con puntate verso Blade Runner (ma sì, con tutta quella nippo/cineseria in giro, gli ologrammi sui grattacieli che danzano la marimba, la pioggia e la notte ovunque, tutto il mondo alla fine è una grande Hong Kong: ma non era Rick Deckard quello là in fondo? Sì, quello che somiglia ad Harrison Ford, proprio lui) oppure voglio vedere un’opera esistenzialista alla Cronenberg che mi faccia indagare i limiti del dualismo cartesiano, immaginare la costruzione dell’essere umano a partire dalla sua essenza (il ghost) e la sua possibile trascendenza digitale nelle macchine (le shell), mantenendo un’identità al confine tra corpo, mente e anima? E come? E il codice può dare origine a questo equilibrio senziente fatto anziché di acidi deossiribonucleici, di bit?

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Facciamo finta che questo sia una recensione-game, dove si può saltare a una parte diversa a seconda di quel che scegliete. Se volete vedere il primo film (l’americanata che è una festa per gli occhi) continuate a leggere qui di seguito. Se invece volete il brivido esistenzialista nipponico, allora scorrete a fondo pagina, dove c’è scritto un grande “CULTORI DEL MANGA, LEGGETE DA QUI”. Capito?

Viva i film di supereroi

Ecco, avete scelto di vedere l’americanata. Bravi. Bisogna sapersi rilassare e quando uno va al cinema lascia il cervello a casa in ammollo, no? Dopotutto questi sono film divertenti. Delle feste per gli occhi, come si dice. E questa festa è fatta particolarmente bene, perché gli autori hanno avuto modo di lavorare su un sacco di materiale già “masticato” sia nel manga (che è a sua volta sorprendente per la distanza concettuale dai successivi anime) che nei predetti anime.

Il film a cartoni, quello originale con l’articolo determinativo The Ghost in the Shell, è sempre stato strano. Anche perché una volta l’ho visto sulla mia PSP con un UMD, ve lo ricordate? Ci facevano i film portatili. Una meraviglia, ma la notte digitale se li è portati via. Il film di Sanders invece no, non se lo porta via nessuno, almeno non a breve. Ed è veramente un remix, anzi un “mix and match”, di cose prese dall’anime. Non la storia, quella no, come abbiamo detto. Ma non è un grosso problema, perché anche i giapponesi sono vent’anni che remixano sempre la solita proto-trama del gruppetto della Sezione 9. Una volta sono bravi, una volta meno bravi. Una volta sono tutti amici. Un’altra litigano. Professionisti, mollaccioni, criminali, poliziotti, reduci delle guerre, rangers, duri alla “Ocean 11”, comunque guidati da una donna e per di più asiatica, con il vecchio capo saggio che usa solo il cervello.

Invece, visto che noi siamo bianchi e suprematisti dentro, abbiamo voluto come Maggiore la nordica Johansson che ha tanti pregi come attrice (davvero: è molto brava) ma non quello di venire dall’Asia. Whitewashing? Probabile; meno male che non hanno messo dentro anche un cameo di Matt Damon vestito da guerriero cinese, va. E il capo che invece parla giapponese? Lui lo può fare, anche perché lo è davvero, giapponese. Siamo al livello di “Beat Takeshi Kitano, non so se mi spiego. Ma Kitano riuscirà a reggere la parte o esploderà come fa sempre nei suoi film? Eeeeh.

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Il film in effetti ha poche certezze e, se è per questo, anche parecchi momenti discutibili se non risibili (“Entra nella mia rete”, dice lui con il suo vocione. “Non sono ancora pronta” risponde lei), citazioni un po’ da ripensare (il gatto che scricchiola alla moviola questa volta digitale, stile Matrix). Ma è un gran filmone lo stesso. Con questo difetto, se volete piuttosto grave, che Scarlett Johansson non è poi così tosta, così dura come nel manga. O negli anime. Anzi, non è dura per niente. Neanche stronza. Fa pure la simpatica. E la tenera. Perché alla fine è solo un’idealista devastata da una guerra più grande di lei, una bambina rivoluzionaria troppo cresciuta. Una povera ragazza che fa l’Amleto di turno. Vaga alla ricerca di qualcosa che poi è se stessa. Ma quale se stessa?

Il film se lo chiede con la sensibilità e la capacità di introspezione che caratterizza le americanate. Sguardi vacui all’infinito e/o al tramonto, recitazione sopra le righe, frasi lapidarie (“Entra nella mia rete”… Sì, come no), qualche sparatoria e qualche scazzottata, numerosi effetti speciali, una città della madonna a fare da cornice. Soprattutto la città, che non si capisce bene perché sia prima giapponese, poi cinese, poi giapponese di nuovo. E infine, a quanto pare, proprio cinese, visto che ci facciamo anche un giro nel cimitero di Hong Kong (che come città cinese è sui generis, lo so, ma insomma adesso fa sempre parte, da un po’ di tempo anche formalmente, della Repubblica Popolare).

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Il timore, mentre la cassiera infila nella busta i nostri 11 euro e ci dà in cambio il biglietto per la sala 2, fila “I” posto 11, è che siano gli 11 euro peggio spesi del triennio. E invece, come per un miracolo, a circa metà del film – subito dopo l’immancabile gita nella pancia della balena, come vuole il manualetto del viaggio dell’eroe – succede qualcosa. Il regista, che fino a quel momento era distratto dagli effetti speciali, riesce finalmente a incontrare gli sceneggiatori e sistema un pezzo di copione, poi torna sul set e chiama la Johansson. «Ehi – le dice – è il momento della svolta. Sei uscita dalla pancia della balena. Il pubblico è tramortito. Ce li stiamo per giocare. Dai, Scarlett, sii te stessa, dai la zampata, facci sognare».

E la Johansson riemerge dalla baia di Tokyo/Shanghai/Hong-Kong/o-quel-che-è, azzecca una serie di sequenze magiche e ci regala mezz’ora di film vero. Di un altro film, che non c’entra niente con Ghost in the Shell. Ma che non è per niente un brutto film. Gli attori sono simili, le ambientazioni chiaramente ispirate, c’è anche il cane pacioccone e la moto stile Akira (ma quale ossessione hanno i giapponesi per le moto? E perché? Forse è come dicevano a Cinecittà per il rapporto tra i film western e i polizieschi: dove le auto sono i carri, le moto sono i cavalli e le pistole sono, beh, quelle sono sempre pistole) ma per il resto ci sta tutto. Un film, quello che poteva fare la coppia Sanders/Johansson, niente affatto male. Sarei andato a vederlo lo stesso, anche se non era tratto da un famoso manga o da dei famosi anime. Sarebbe stato un film originale, dignitoso, magari come i capolavori di fantascienza di Luc Besson che sono una festa per gli occhi ma poi un anno dopo non se li ricorda più nessuno (“Fifth” chi?). Chessò, una cosa così.

Avrei già avuto, e in effetti avevo, il cuore in pace, quando è successo l’imprevisto. Non me l’aspettavo. È saltato fuori il terzo film. Quello con “Beat” Takeshi Kitano. E su questo non vi dico altro perché odio gli spoileroni e ritengo che l’unica critica civile sia stata l’Apocalisse di Giovanni: un testo che se lo leggete non capite una mazza ma, pare, mentre c’è l’Apocalisse vera, vi torna all’improvviso tutto e si capisce anche il riferimento al drago con tutte quelle teste e ai colori dei cavalli dei cavalieri dell’Apocalisse medesima. Anche questa recensione, insomma, ex post dovrebbe diventare come le Faq del simbolismo di Ghost in the Shell, mentre adesso non ci state legittimamente capendo una mazza. Ma ci sta, è un effetto speciale voluto. Perché poi quando vedrete quelli del film, capirete che sono molto più speciali ma forse molto meno voluti. Comunque, tanta roba.

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E adesso, come promesso, dopo il consueto invito alla visione (dai, è un filmone da vedere con gli amici, si ride di gusto, “Entra nella mia rete”…), spazio a chi invece ha preso una strada diversa, più filologica. Ma non temete che non è una brutta malattia e non si attacca. Soprattutto se vi fate fare una bella iniezione di penicillina.

CULTORI DEL MANGA, LEGGETE DA QUI

No, non si può fare. Stasera niente cinema. State in casa, con le vostre persone care. Oppure da soli, meglio. Leggete un buon libro. Oppure chiudete gli occhi. Dormite, che siete stanchi. E non sognate. Soprattutto non sognatevi Scarlett Johansson, perché tanto è un effetto speciale, mica è fatta davvero così. Buonanotte. E ora dai, però, tornate indietro a leggere “Viva i film di super-eroi”, così poi vi torna voglia di andarlo a vedere questo film. Merita, davvero. Sul serio.

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Antonio Dini, giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. Ha un blog dal 2002: Il posto di Antonio. Il suo canale Telegram si chiama: Mostly, I Write.

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