Il rapporto di identificazione tra autori e personaggi, nel fumetto internazionale, non è sempre lo stesso. Tra i fumettisti europei (in particolare quelli di scuola franco-belga) e le loro creazioni c’è una relazione storicamente più forte e diretta rispetto a quella che coinvolge i colleghi d’oltreoceano. È davvero difficile separare Asterix, i Puffi, Lucky Luke, Ric Roland, Thorgal e tante altre icone del nostro immaginario, dai nomi di Goscinny, Uderzo, Peyo, Morris, Tibet, Duchâteau, Rosinski, Van Hamme… Lo stesso discorso varrebbe anche per molti personaggi del fumetto italiano: Corto Maltese è Hugo Pratt, Valentina rappresenta un’estensione di Crepax, in un certo qual modo anche Dylan Dog si offre come specchio del suo ideatore e miglior narratore, Tiziano Sclavi. Di chi è, però, Spider-Man? A chi si deve il profilo (i profili?) psicologici dell’uomo pipistrello? Chi è stato il miglior narratore di Superman? E, soprattutto, chi è l’anima che ha mosso e muove l’entità narrativa che in italia chiamiamo Topolino?
Nel contesto franco-belga, dunque, il ruolo riconosciuto agli autori e spesso la libertà – più o meno relativa – loro concessa nella gestione delle loro creazioni ha portato a una fortissima identificazione autori/personaggi. Negli Stati Uniti, invece, i characters hanno finito per “dominare” i team creativi che di volta in volta ne prendevano il controllo. Si parla, naturalmente, di tendenze di massima che prevedono molte eccezioni. Peraltro il fenomeno trova corrispondenze anche in altri settori dell’industria dei media (il tema è un ‘classico’: basti pensare alle teorizzazioni di André Bazin ed alla “politique des auteurs”). Ma nel fumetto ci sono casi particolarmente interessanti. E la produzione Disney è tra questi.
Questa tendenza ci interessa oggi, parlando di Una misteriosa melodia – O come Topolino incontra Minni di Cosey (vincitore del Grand Prix d’Angoulême 2017) e di Mickey – Le avventure più incredibili di Lewis Trondheim e Nicolas Kéramidas, principalmente per due implicazioni. La prima riguarda il fatto che il passaggio di testimone degli autori “alla guida” di un personaggio franco-belga è avvenuto quasi sempre attraverso tre modalità: 1) un forte controllo da parte dei creatori (Uderzo su Asterix), 2) il coinvolgimento diretto di uno di loro, spesso ‘superstite’ di una coppia (ancora Uderzo su Asterix ma anche Rosinski su Thorgal) o 3) l’adozione di uno stile totalmente mimetico nei confronti dell’opera originale (Achdé su Lucky Luke e molti altri). La seconda: gli autori francobelgi non hanno (quasi) mai fornito versioni particolarmente originali di character o marchi stranieri, preferendo, semmai, importare autori di altri paesi e farli lavorare sui propri.
In questo quadro, la recente operazione “d’autore” sui personaggi Disney merita qualche riflessione in più.
Esiste un’importantissima scuola Disney italiana, come è noto, ma ci sono e ci sono stati stati ottimi interpreti di questa tradizione fumettistica anche in Danimarca, Olanda, Argentina, Spagna, Brasile e persino Inghilterra. La scuola franco-belga, invece, non è mai stata capace di esprimere personalità di rilievo in questo settore (una fra tutte François Corteggiani, fra l’altro molto attivo anche in Italia). E non certo perché il fumetto Disney, come del resto avvenuto anche da noi, non abbia avuto un ruolo centrale nello sviluppo del medium in quell’area geografica: Le Journal de Mickey iniziò la pubblicazione di storie disneyane a partire dal 1934.
Per quanto riguarda una sorta di conservatorismo del pubblico franco-belga, che non ha mai visto di buon occhio uno stravolgimento troppo brusco dei propri beniamini, sembra sia in atto qualche (timido) cambiamento. Un cambiamento che passa per rivisitazioni non sempre centratissime come nel caso di L’uomo che uccise Lucky Luke di Matthieu Bonhomme (ne abbiamo parlato QUI), per collane laterali (I mondi di Thorgal) o per versioni rivedute e corrette per – si spera – il nuovo pubblico di questi anni, come nel caso delle nuove avventure di Ric Roland o, per quanto riguarda il mercato italiano, di testate come Martin Mystere – Le nuove avventure a colori e Diabolik – Dk.
D’altro canto, ad esempio, la preferenza data ai più “fedeli” Juan Dìaz Canales e Rubén Pellejero piuttosto che all’approccio maggiormente personale di Joann Sfar e Christophe Blain come autori delle nuove avventure di Corto Maltese dà la misura dei margini concessi a questa ondata di rinnovamento. Insomma, si parla di un intreccio complesso in cui il tradizionalismo del pubblico – specialmente di quello più adulto – si scontra con i gusti delle nuove generazioni (e con il desiderio delle case editrici di accontentare i lettori più giovani o più esigenti senza snaturare i marchi di cui sono proprietari). Un intreccio le cui implicazioni sono ben note, per riferirci di nuovo al mercato italiano, ai creativi e ai dirigenti della casa editrice Bonelli.
Il Topolino (in calzoncini corti) di Glénat
Nel contesto dello scenario appena descritto, la collana di fumetti Disney creati da autori estranei a questo specifico ambito e lanciata da Glénat rappresenta una novità di non poco peso. Da sempre la Francia è un’importatrice di storie Disney. Il gruppo editoriale, che dal 2010 detiene i diritti per la pubblicazione nel paese dei fumetti disneyani, ha pensato che non sarebbe stato difficile – con il beneplacito della casa madre – crearne in proprio, ed ecco quindi la serie di quattro volumi di cui due ancora inediti in Italia. Il risultato mi pare sintomatico dell’atteggiamento appena descritto e, più in generale, di come viene percepito il fumetto disneyano nel mondo. Il Topolino che vende – l’icona che troviamo ancora oggi stampata sulle tazze, sulle magliette, sulle coperte, sui cuscini, sui pigiami, sulle custodie degli smartphone in vendita nei Disney Store (e non solo) di tutto il mondo – è il Topolino classico, in stile anni Venti/Trenta. Quello in pantaloncini rossi e scarpe gialle, pupilla rotonda o “spicchiata” ma senza iride. Quello di Ub Iwerks e del primo Floyd Gotffredson, per intenderci. Del resto, anche al di là dell’ambito del merchandising, questo è il modello ancora più rappresentato. Non solo nei videogiochi e nei corti animati. Con l’esclusione della scuola italiana, il “Topolino in calzoncini corti” è utilizzato frequentemente da autori nordeuropei, spagnoli e sudamericani.
Si tratta di un fatto più che comprensibile. Non solo per l’amore per le storie classiche del personaggio che i prosecutori dell’opera di Iwerks e Gottfredson provano, ma anche perché, va detto, rispetto al giro di affari che il “marchio Topolino” è oggi capace di generare, il fumetto ricopre un ruolo molto marginale.
Non solo il Topolino di Cosey e degli altri autori coinvolti nell’operazione capitanata da Glénat è quindi quello delle origini, ma anche scenari, ambientazioni e persino formati editoriali – con storie a strisce e finzionali ritrovamenti di albi perduti, rimandano a quel preciso periodo storico, in un bagno di nostalgia che ha qualche pregio e molti limiti.
Il Topolino di Cosey
Cosey (QUI un’anteprima del suo volume), rispetto ad altre più scherzose e “mimetiche” soluzioni adottate dai suoi compagni di avventura, si pone a metà strada, adottando un passo grafico e narrativo che sulla carta potrebbe essere quello più intrigante fra i molti possibili per approcciarsi a un lavoro di riscrittura di questo tipo. Il debito di riconoscenza viene dichiarato e saldato immediatamente, grazie alla dedica che apre il volume:
A Walt Disney, a Ub Iwerks, Floyd Gottfredson, a tutta la straordinaria équipe dei Disney Studios.
La dedica indica subito in quali territori ci muoveremo. E infatti il volume di Cosey è – e purtroppo lo resterà – sospeso fra due intenzioni: l’omaggio dell’appassionato e la rivisitazione d’autore. La prima anima di questa duplice natura si rende subito evidente. Una misteriosa melodia, infatti, inizia nel giugno del 1928, anno di esordio del personaggio. Nella storia di Cosey, Mickey è – in perfetta identificazione con i suoi creatori – uno sceneggiatore di brevi film muti interpretati da Pluto (in realtà apparso per la prima volta nel 1930, anno della scoperta del pianeta Plutone da cui prende il nome), inizialmente presentato come “Dog”. Graficamente Cosey – uno dei massimi rappresentanti dello stile realistico europeo – omaggia la sintesi e l’universo immaginifico di Iwerks, ma rivestendo il tutto di una malinconia soffusa e lunare – e a tratti inquietante – che sembra quasi spostare lo sfondo degli avvenimenti dalle parti della contea di Coconino. I volumi sono ridotti al minimo, gli oggetti sono resi con veloci tratti minimali, e larghe campiture di colore definiscono la profondità dei campi lunghi.
La trama gialla, per la verità piuttosto esile, è il pretesto per un’esplorazione delle psicologie di alcuni principali personaggi disneyani e una critica – in parte acuta, in parte resa inefficace dalla mancata riuscita del volume – agli stilemi del racconto patetico-avventuroso. Minni, in particolare, di cui si ricostruisce il primo incontro con il nostro eroe, è forzatamente rivisitata attraverso un’ottica post-femminista. Pippo, d’altro canto, è letto da Cosey come una sorta di inconsapevole maestro zen capace di donare non si sa bene quanto inconsapevoli rivelazioni al tormentato protagonista. Lettura, questa, che forse deriva dall’amore di Cosey per le filosofie orientali, e sebbene non sia priva di fondamento viene però sottolineata con eccessiva veemenza, al punto da renderla davvero indigesta. Sono molti altri i personaggi e i momenti della storia dei fumetti e dell’animazione citati dal fumettista svizzero: le Silly Symphonies, Giuseppe Tubi, Orazio, Clarabella, Ciccio, Oswald il Coniglio, Gambadilegno, Paperino (il cameo più riuscito) oltre a molti comprimari delle prime strisce e cortometraggi di Topolino. Un parterre eccellente che, se testimonia sì un amore realmente sincero per la materia trattata, finisce anche per comporre un confuso e un po’ troppo nostalgico e personale albo dei ricordi.
È uno strano oggetto, in fin dei conti, questo volume di Cosey. Un omaggio sentito al mondo disneyano delle origini raccontato però con tempistiche molto dilatate e un’attenzione particolare agli spazi più che all’azione. Ma è anche un guazzabuglio confuso e indeciso tra la rivisitazione d’autore, il ricordo nostalgico e il fumetto underground. Il risultato della fusione incontrollata di questo potpourri di elementi non riesce particolarmente seducente.
I personaggi e, più in generale, l’universo disneyano, rappresentano un caso raro, con poche similitudini nella storia della narrativa. Puoi prendere questo gruppo di personaggi, vestirli degli abiti più disparati, farli recitare in storie e ambientazioni molto diverse ma – se in mano a sceneggiatori e disegnatori con un minimo di capacità e sensibilità – rimarranno sempre riconoscibili senza, al tempo stesso, essere loro stessi. Sono attori facili al travestimento e molto, molto resistenti al cambiamento. Anche quando usati da “distruttori” molto abili – penso al gruppo degli Air Pirates – la loro natura è rimasta in buona parte inalterata.
Le forzature introdotte da Cosey – un Topolino che non è il vero protagonista dell’azione, la quasi totale sottrazione dell’elemento avventuroso, la rarefazione in chiave astratta e surreale di quello umoristico – hanno quasi del tutto annullato la “disneyanità” di questa storia. Al punto che viene da chiedersi quale fosse la necessità di un’operazione la quale, semplicemente, non era forse nelle corde dell’autore.
L’approccio di Cosey, in sostanza, nega la premessa del progetto. Il lavoro svolto da Iwerks, Gottfredson e soci, ringraziati in apertura, viene trattato come una “materia migliorabile”, anche – con un eccesso di spocchia, va detto – nell’ottica di un anacronistico politically correct. Come se, nel corso dei decenni passati, Paperi & Topi non avessero visto spesso ridiscutere il proprio ruolo all’interno del sistema culturale (non senza scontri e compromessi), ma grazie al lavoro di autori capaci di coglierne le peculiarità e traghettarli attraverso le pastoie della contemporaneità. A Cosey ciò non è riuscito, e forse non era neanche nelle sue intenzioni. Resta il fatto che il suo omaggio alla Disney è rimasto sospeso fra due piani: le nuvole soffuse e accoglienti della nostalgia infantile e il duro terreno dei doveri spettanti all’autore maturo.
Il Topolino (e il Paperino) di Trondheim e Keramidas
Mickey – Le avventure più incredibili (QUI un’anteprima), secondo volume della serie Glénat ad essere pubblicato in Italia, solleva in parte gli stessi dubbi di quello firmato da Cosey, anche se l’approccio della coppia di autori è sicuramente più scanzonato. Trondheim e Kéramidas, passeggiando per i mercatini dell’usato, trovano una quarantina di numeri della mitica rivista degli anni Sessanta Mickey’s Craziest Adventures. Decidono quindi di tradurne le tavole a fumetti e ripubblicarle in volume. Un lavoro di archeologia editoriale interessante… se non fosse che nulla di quanto finora detto è vero.
Il finto ritrovamento delle tavole è il pretesto inventato allo scopo di comporre un’avventura disneyana nello stile “una-pagina-a-numero”, con tanto di gag di chiusura in conclusione della tavola. L’operazione è condotta con un certo rigore filologico o, meglio, metodologico. Per esempio la trama manca di alcuni passaggi e raccordi a causa dei numeri non reperiti della rivista… alcune tavole sono strappate, invecchiate dagli anni e recano macchie e sporcature. Inoltre, in apertura del volume, vengono persino presentate alcune finte – ma assai credibili – copertine della rivista, che riprendono l’impostazione delle riviste disneyane della Dell.
Peccato che lo stesso rigore non sia stato applicato allo stile grafico delle storie “ricostruite”, che si distinguono immediatamente per la modernità del tratto – di chiara derivazione cartoonesca – e della colorazione (ottima, di Brigitte Findakly, moglie di Trondheim), nonostante il fin troppo abbondante uso del finto effetto puntinato tipico della stampa del periodo evocato. Inoltre il gioco “archeologico”, che permette a Trondheim, grazie alla narrazione ellittica derivantene, di inventare una serie rutilante di gag – alcune riuscite, molte meno – rischia alla lunga di risultare divertente più per gli autori che per i lettori. Anche in questo caso, come in quello di Cosey, è difficile individuare una “necessità” narrativa. Perché raccontare questa storia, e non un’altra, attraverso i personaggi disneyani? Sottraendoli dall’equazione e sostituendoli con uno qualsiasi dei molti classici del fumetto umoristico francese, non sarebbe cambiato molto.
Ma c’è un altro aspetto. La scarsa ‘necessità’ narrativa si ritrova aggravata dal suo obiettivo: offrire una parodia. Come è noto non solo il parodiare l’universo Disney, è legittimo, ma si tratta anche di una strategia praticata molte volte (persino troppe). L’operazione parodica però, se vuole dirsi riuscita – come nel caso dei già citati Air Pirates – deve presupporre una conoscenza profonda della materia parodiata. E qui casca l’asino: Trondheim non sembra in grado di cogliere le specificità dei personaggi e della ‘rete di storie’ che questi portano con sé. Il risultato è che l’autore finisce per concentrare i suoi pur benevoli attacchi contro gli stereotipi tipici del fumetto – o del racconto comico-avventuroso – nel suo complesso, senza alcuna specificità disneyana. Restano il piacere, seppur un po’ attenuato dallo stiracchiamento, derivante dalla narrazione ellittica, che permette cambi di ambientazione e di tono bruschi e spiazzanti, e la bellezza dei disegni di Kéramidas.
Il disegnatore francese lavora a briglia sciolta e trova una propria dimensione grafico-comica convincente soprattutto per quanto riguarda gli sfondi e i personaggi di contorno. La recitazione dei protagonisti disneyani risulta, invece, molto meno convincente, con qualche calco di troppo da altri autori fra cui, soprattutto, maestri italiani come Giorgio Cavazzano e Corrado Mastantuono. Problema questo, relativo a una certa legnosità e ripetitività nella mimica e nella recitazione corporale, che riguarda anche il già citato fumetto di Cosey e che ci ricorda come questi semplici eroi di carta abbiano un’anima e una personalità talmente strutturate che è impossibile cogliere attraverso una frequentazione solo occasionale.
La fanfara che ha preceduto la pubblicazione delle storie qui commentate, e le pregevoli edizioni di lusso che le ospitano, raccontano molto dell’eccezionalità e del risalto che si è voluto dare – in patria e in parte qui da noi – all’operazione. Eppure i risultati sono molto inferiori, almeno per quanto riguarda questi due volumi, alla somma delle parti degli elementi e dei talenti coinvolti. La qualità delle storie disneyane italiane, realizzate senza molto clamore e con un approccio di stampo molto più “artigiano”, si offrono come esempi non solo qualitativamente migliori, ma anche più coerenti e sinceri rispetto ai personaggi e ai mondi raccontati. Tocca quindi aspettare i prossimi volumi, ovvero i progetti firmati da Loisel e Tébo. Sui quali, senza dubbio, varrà la pena ritornare.