In questi giorni esce per Coconino Press il primo libro di una nuova collana dedicata al manga Gekiga (più dettagli QUI). I primi titoli sono La mia vita in barca, di Tadao Tsuge ed Elegia in rosso, di Seiichi Hayashi.
Durante il suo ultimo viaggio in Giappone, Igort ha incontrato Tadao Tsuge. Ne è nata una conversazione che Igort ha riportato su Facebook, noi riproponiamo, in quanto costituisce rarissima occasione di confronto con una delle menti che hanno rivoluzionato il fumetto giapponese all’interno del movimento Gekiga.
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Al principio fu suo fratello maggiore, il celebre Yoshiharu, a spingerlo a raccontare con i disegni. Per fargli capire i rudimenti del mestiere, gli fece riempire le campiture di nero, e poi lentamente fare i puntini nelle sue tavole. «Yoshiharu già pubblicava, aveva le idee chiare».
Poi anche lui intraprese la carriera di autore. Tsuge Tadao è un uomo timido, dolce.
Oggi ha 75 anni e lo sguardo di un bambino sognatore. Si schermisce quando gli dico che il suo lavoro, che è pubblicato ora in tutto il mondo, influenza il lavoro di molto artisti, orientali e occidentali.
Lui, una delle figure chiave del movimento Geki-ga (storie drammatiche, in contrapposizione al termine man-ga, storie di intrattenimento) racconta di un’infanzia senza sogni nell’immediato Dopoguera. «non pensavamo di diventare autori, non pensavano nulla, cercavamo di sopravvivere, anche mangiare era un problema».
Quell’infanzia che sarebbe diventata un tormento, un’inferno, a distanza di tanti anni è ancora una ferita aperta.
«ho subito una violenza quotidiana, costante, non c’era giorno che non fossi pestato, ancora mi domando il perché questo odio».
Preferisce non parlare della sua famiglia. «Era una situazione un po’ particolare, preferisco non ricordare», ma poi mostra il braccio sinistro, ha ancora le cicatrici.
«Ero il più piccolo».
Quando gli chiedo qualcosa delle sue prime storie lui dice che sì, erano cupe, ma né lui né il fratello se ne rendevano conto. E non si rendevano conto di fare qualcosa di originale, loro raccontavano il mondo che vedevano, quel mondo terribile che avevano conosciuto.
Poi qualcuno ci fece notare che le nostre erano storie disperate, e Yoshiharu disse: «va bene, allora facciamolo diventare un marchio di fabbrica».
«Ci si trovava con mio fratello e con Tatsumi San, che era più grande di noi, e disegnava come noi storie di crimini e di desolazione, ma non parlavamo mai di lavoro, tranne in rare occasioni. Fu lui a inventare il termine Geki-ga».
Racconta di incontri per andare in giro a ridere e scherzare. Una stagione nella quale si produssero storie leggendarie, pubblicate su riviste che venivano date in affitto: «C’era gente troppo povera per comprarle, allora le leggevano e le riportavano. Quando ricevetti la lettera di Takano Shinzoo, che mi invitava a pubblicare sulla rivista Garo cominciai a elaborare storie di uomini comuni alle prese con una realtà durissima. Credevo che fosse fatta. E per 3 anni riuscii a vivere del mio lavoro di autore, avevo 27 anni. Poi nulla, con una moglie e un figlio, dovevo essere responsabile, cominciai a lavorare in una banca del sangue. Quando potevo disegnavo le mie storie. In casa i miei fratelli appena poterono se ne andarono a vivere per conto loro, io rimasi, anche allora ero quello che lavorava, che manteneva la famiglia».
«Adesso ho ripreso a disegnare a tempo pieno, vivo in un mondo che è per metà reale e metà il mio mondo».
Quando gli chiedo cosa ricorda della bomba atomica, dice che era un bambino e nessuno parlava di questa cosa, ma che è un dolore che è dentro ogni giapponese.
«Mi domando perché lo fecero. Si disse che servì ad accelerare la fine della guerra, si può vedere anche da quel punto di vista. Ma il Giappone era ormai in ginocchio si sapeva che era prossimo alla resa. Qualcuno ha detto che l’America volesse fare vedere alla Russia, che all’epoca non aveva armi atomiche. Fu un monito forse. E poi fu un test, volevano capire come funzionavaAdesso ho ripreso a disegnare a tempo pieno, vivo in un mondo che è per metà reale e metà il mio mondo.
Sono momenti gravi, di silenzio.
«Non servono le scuse dell’America, il Giappone ha fatto cose terribili in guerra. Con la Cina e con la Corea. Le parole non servono a nulla».
Si rimane attoniti, davanti ai silenzi di un grande uomo, di una persona semplice, che non ama viaggiare.
«L’Europa? Non sono andato neanche in Canada, non fa per me, non vado neppure a Tokyo».
Quando parliamo delle figure misteriose di Yokai e Kappa che popolano la natura secondo la tradizione giapponese, lui dice che gli interessa quella forza misteriosa, quella dimensione insondabile. C’è una forza enorme in certe cose, in certe persone, «mio fratello Yoshiharu, per esempio, la possiede».
«Non so«, dice sorridendo, «non so, a me piace vivere qui, in un piccolo villaggio».
Vive con le sue storie, che nascono da lampi, da momenti che si dilatano, e che non hanno smesso di accompagnarlo per tutta la vita.
Come i ricordi di quella infanzia tormentata. Che lui interroga, con il sorriso malinconico di chi non capisce.