Robert Kirkman lo aveva detto: Outcast sarà una serie lunga. E non bluffava. Il secondo volume, che raccoglie gli episodi dal 6 al 12, ne è la prova. Infatti, dopo circa 260 pagine di fumetto, ci ritroviamo ancora a saperne pochissimo. Appena più della sinossi. Il tutto all’insegna di una narrazione che più diluita di così non si può. Furbescamente orchestrata per durare il più possibile.
Certo, qualche passetto avanti è stato fatto. Abbiamo visto Allison, la ex di Kyle, e la figlia. Abbiamo capito che molto probabilmente Sidney è il Diavolo sceso in terra. E siamo ormai sicuri che il reverendo Anderson abbia un serio problema con l’alcool. Ma la storia di per sé non è andata avanti di molto. Si sono visti un sacco di esorcismi – quasi tutti uguali – che non hanno chiarito perché Kyle è “il reietto” e come funziona il suo potere. E il finale del secondo volume non sembra poter cambiare rotta.
In questo senso Kirkman pare ricalcare l’andamento di tante recenti serie Image Comics: racconti spesso ‘annacquati’ che sembrano non partire mai, neanche dopo un anno di storie. Però, a differenza di altri suoi illustri colleghi, Kirkman è un affabulatore vero. E anche un grande narratore. The Walking Dead e Invincible stanno lì a ricordarcelo.
Outcast in fin dei conti funziona perché Kirkman chiede al lettore di sospendere la sua incredulità proprio quando rischia di diventare una noia mortale. Ci chiede di dimenticarci che in questa piccola cittadina fittizia del West Virginia spunta tanta gente indemoniata quanto spuntano gli zombie in The Walking Dead. Ci promette di accompagnarci per mano alla scoperta del mistero di Kyle. E di contro mette sul piatto un’irresistibile storia di drammi esistenziali incentrata sul tema della famiglia.
Così il lettore si trova spiazzato. Da una parte c’è un banale racconto di esorcismo che apparentemente non ha fatto un passo avanti rispetto a L’esorcista, il film cult degli 1970, ma che comunque vogliamo sapere dove andrà a parare. Dall’altra c’è la storia, molto più interessante, di un giovane che cerca di reintegrarsi nella società. Che vuole riallacciare i rapporti con la figlia e la moglie. Che ha seri problemi a relazionarsi con la sorellastra per via di brutti fattacci accaduti in passato. E che è consapevole che i problemi che sta affrontando sono solo colpa sua, anche se non sa bene perché. Mettiamoci poi Andersen, il prete alcolizzato. Sicuramente il personaggio migliore della serie, a cui Kirkman riesce a mettere in bocca sia discorsi ‘alti’ sulla religione che sparate da autentico provincialotto.
In molti, poi, si staranno chiedendo da dove sia uscito Paul Azaceta, autore finora non proprio di primo piano, che su Outcast si sta rivelando una vera sorpresa. Il suo tratto spigoloso e fermo, accompagnato da chine spesse e a volte sporche, rende molto bene sia le situazioni spaventose che quelle intimiste. Il suo punto di forza sono le espressioni facciali, con cui dà il massimo perfino nelle scene più statiche. Il che mi pare un aspetto fondamentale, per la riuscita di un buon fumetto horror. Seppure a volte il suo storytelling non sia facile da seguire a causa della densità data dagli insect panel – quelle piccole vignette che trovate disseminate in quasi ogni tavola –, il suo lavoro è determinante per la riuscita della storia e sembra crescere numero dopo numero.
Outcast è insomma una di quelle serie dall’immaginario magari un po’ modaiolo (demons is the new zombies?) o scarsamente originale (niente invenzioni alla Saga di Brian Vaughan, per intenderci), ma tuttavia così ben orchestrate che viene davvero voglia di leggerne il seguito. Certo, il sottile timore è quello di finire gabbati dall’autore: prima o poi, caro Robert, arriverà il momento di farci capire qual è la direzione di fondo. Per ora, comunque, ti seguiamo con fiducia.
E diciamocelo, il gusto sta anche nello scoprire i piccoli giochi nascosti tra le pagine: quanti nasi si romperanno da qui alla fine della storia? Io per ora ne ho contati 8. Una bella media.
Tutto sommato, con Outcast ci si diverte anche.