Birthright è una di quelle serie in grado di mettere in difficoltà qualsiasi redattore. Per quanto provi a girartela e rigirartela tra le mani il pensiero è sempre quello: cos’è che non funziona? La smonti, la osservi da ogni angolazione possibile, la passi al vaglio elemento per elemento. Tutto sembrerebbe essere al posto giusto, eppure non riesce proprio a ingranare. Cosa gli manca per conquistarsi un posto al sole? Quale è l’ingrediente segreto in grado di rendere la somma delle parti superiore alle parti stesse?
Perfino lo stesso concept alla base – aspetto solitamente giustificato nella sua banalità con il solito mantra del “non conta il cosa, ma il come” – riesce a essere fresco e accattivante. Un ragazzino scompare nei boschi mentre è impegnato a giocare a baseball con il padre. Riemergerà un anno dopo, adulto e trasformato in una specie di Conan. La sua famiglia, già devastata dalle conseguenze della sua presunta morte, finisce per spaccarsi ulteriormente tra chi gli crede ciecamente e chi invece non crede che quel grosso omone muscoloso possa essere il piccolo e gracile Mikey. Da questo spunto la narrazione si sdoppia: da una parte il presente, con il perseguimento della missione del protagonista nel nostro mondo, dall’altra i racconti sulla sua infanzia perduta nel bizzarro mondo di Terrenos.
L’idea è una di quelle ghiotte. Lo scrittore Joshua Williamson sfrutta tutta la sua esperienza di autore televisivo per tenere il piede in due scarpe, alternando un presente drammatico e carico di mistero a scorci di fantasy che paiono rifarsi a una sorta di Storia Infinita misto Giochi Stellari sotto steroidi.
Sulla carta sembrerebbe dura chiedere di meglio. Ancora di più se si pensa come entrambe le linee narrative siano sviluppate in maniera egregia. Prendiamo il plot principale: la presenza del nerboruto guerriero nel nostro mondo è minata da una serie di ambiguità che aspettano solo di essere chiarite nei prossimi volumi, mentre tutta la vicenda familiare è il gancio perfetto per approfondire i personaggi in maniera molto più matura di quanto ci si aspetterebbe. Il padre accusato di omicidio ormai in preda all’alcolismo, una madre solo apparentemente forte, la fiducia del fratello. Senza contare poi come Mikey abbia avuto tutto il tempo per farsene una anche nel suo nuovo mondo, di famiglia.
Il mestiere c’è, è evidente, e oltre oceano paiono essersene accorti tutti. Williamson è arrivato da poco nel mondo del fumetto statunitense, ma pare se lo voglia prendere tutto. Grazie anche allo slancio diversi titoli in corso per Image Comics, riesce a mettere le mani sulla nuova serie di Flash e ad entrare anche in casa Marvel. La sua scrittura solida e ben calibrata è fatta apposta per poter consegnare all’editor di turno sceneggiature scritte con il bilancino, dove tutti gli ingredienti sono misurati al punto giusto. E Birthright ne è l’esempio palese.
Il disegnatore Andrei Bressan, invece, è la persona giusta per smentire quelli che si lamentano dell’immaginario poco visionario del fantastico contemporaneo. Il percorso formativo del giovane protagonista prende piede in un universo coloratissimo e iperdettagliato, pieno di mostri, ambienti folli e brutalità assortite. Il fatto che a immergerci in tutto questo sia lo sguardo di un bambino rende l’insieme ancora più affascinante, ricollegandoci a tutta una serie di film per ragazzini sulla falsariga de La Storia Fantastica. Solo con più sangue e fauci, diciamo.
Con il proseguire della serie le anomalie di questa realtà parallela entreranno sempre più nel nostro mondo, facendo ben presto scivolare il plot principale nel categoria dell’urban fantasy. Tanto per non farsi mancare un ulteriore motivo d’attrazione per i lettori più giovani.
Messa così questa serie sembrerebbe una di quelle immancabili per chiunque ami l’evasione fine a se stessa. C’è un po’ di serietà, la famiglia da rimettere assieme, un sacco di cliffhanger misteriosi, la nostalgia dei fantasy della nostra infanzia e l’ipertrofia di quelli mutuati da universi alla Warcraft. Il tutto messo in piedi da due professionisti a cui gli si può dire ben poco, tanto sono abili nel consegnarci un bel concentrato di tutto quello che vorremmo cucinato nel migliore dei modi possibili. Non è un caso se questa serie abbia spopolato sui siti più nerd degli Stati Uniti, raccogliendo votazioni entusiaste e raccomandazioni come se non ci fosse un domani. Nulla di strano, visto che chiunque può trovarci qualcosa di suo gusto. E forse il problema sta tutto lì.
In Birthright manca quell’ingrediente che non avrei mai immaginato potesse piacermi e di cui ora non posso più fare a meno. Quello spigolo che se fossi stato finanziatore dell’opera avrei chiesto, nella mia infinita miopia, di smussare. «A chi mai potrebbe piacere un fumetto su di un poliziotto con poteri psichici collegati al cibo?», mi sarei chiesto nel momento in cui mi fosse stato presentato il pitch per Chew. E infatti, ora che la serie è prossima alla chiusura, tutti sono d’accordo nel definirla una delle migliori degli ultimi 10 anni. Con i suoi disegni goffi, le sue stranezze disgustose e tutto il resto.
Alla stessa maniera non avrei mai scommesso nulla su di un Daredevil solare dopo anni di noir a ogni costo, o su di una storia in cui due ragazzi sono in grado di bloccare il tempo grazie a un amplesso o, ancora peggio, sulle bislacche avventure di una ragazza scoiattolo. Eppure queste sono le idee di cui si parla e che influenzeranno per molto tempo l’industria del fumetto.
Birthright ha al suo arco un sacco di frecce davvero notevoli, ma finché si limiterà a usarle per portare a casa un compitino ben fatto dubito possa davvero diventare qualcosa di incisivo. Da quello che si legge in giro con gli ultimi numeri usciti la storia pare aver avuto una grossa evoluzione, alzando il tiro rispetto alla confort zone in cui sembra essersi barricata. Per ora l’incedere così indulgente nei confronti del lettore rimane una zavorra troppo importante per essere ignorata. Verificheremo alla conclusione del prossimo story-arc quanto le cose siano effettivamente cambiate.