Wu Li Shan è un cittadino cinese arrivato a Milano nel 1931. Non conosce l’italiano, fa il venditore di cravatte e ha a malapena una stanza dove stare. Il fumetto Primavere e autunni (BeccoGiallo) – finalista al Premio Andersen 2016 e in mostra a Napoli Comicon 2016 – racconta la sua storia, da ambulante a titolare di azienda, dai primi tentativi di integrazione nella realtà lombarda fino al matrimonio con la sarta Giulia e alla creazione di una famiglia. A raccontare la sua vicenda è il nipote Matteo Demonte, studioso di lingua e cultura cinese, reinventatosi illustratore per portare su carta la vita del nonno grazie ai testi della sua compagna Ciaj Rocchi.
Il libro non si limita a narrare la storia della famiglia di Matteo, ma è il primo tentativo di raccontare la storia dei cinesi d’Italia a partire dai suoi inizi “veri” (gli anni Trenta del Novecento). Prima di Primavere e autunni la ricerca storica sulle comunità cinesi in Italia era limitata a pochi testi, a partire dagli studi seminali di Philip Kwok, per proseguire con i lavori di sociologi e sinologi come Daniele Brigadoi Cologna, che firma la postfazione del volume. Come nota lo stesso Brigadoi Cologna, però, nessuno di questi testi traccia un affresco completo quanto il libro di Rocchi e Demonte, che pure parte dal particolare, dalla molecola più piccola, un singolo uomo, per arrivare a documentare le vicende di interi popoli. La narrazione, infatti, continua a zoomare dalla vita di Wu a Milano alle vicende nazionali italiane e cinesi, mostrando come i fatti storici abbiano influito sulla quotidianità. L’apice di questo intreccio giunge con la rivoluzione maoista, che preclude all’uomo qualsiasi possibilità di rientrare nel paese d’origine.
Se opere a fumetti di taglio biografico o saggistico sono ormai comuni, è raro però che aprano la strada in aree della ricerca storica ancora poco esplorate, e questo è certamente il pregio maggiore di Primavere e autunni. Fra i primi e più convinti ammiratori del libro c’è anche Alino, Direttore culturale di Napoli Comicon, che si è fatto promotore dell’esposizione napoletana e ci ha voluto raccontare il suo punto di vista.
Alino, cosa ti ha spinto a includere questo lavoro così inusuale nel programma espositivo di Napoli Comicon 2016?
Ciò che rende apprezzabile e anche ambizioso Primavere e autunni è il fatto che, fino a 10 o 15 anni fa, un lavoro del genere sarebbe diventato solamente un saggio di studio e di approfondimento. Oggi invece, attraverso un lavoro rigoroso e contaminato come questo, anche il fumetto è in grado di raccontare tutto questo.
Senza dubbio. Quali aspetti, in particolare, ti hanno più colpito?
Avevo letto Primavere e autunni per consigliarlo a un nostro partner culturale e avevo notato nella lettura una rapidità decrescente rispetto ai classici tempi (miei) di una lettura fumettistica, che giocoforza (in)seguono il testo, rallentano sulle immagini ma scorrono via con delicata frenesia. Questa lentezza della lettura non aveva una connotazione negativa; l’occhio indugiava sul testo e su quelle immagini sì didascaliche, ma curate e definite, e rendevano l’assimilazione del contenuto più profondo e consapevole.
Questo non è naturalmente un fumetto classico. Si situa in una posizione iperrealista, dalle parti di Valzer con Bashir (tenendosi larghi), con immagini rarefatte e nette come fossero “silhouette”, statuine contrastate da una staticità molto espressiva, che si muovono sullo sfondo di fondali storico-geografico puntuali, lasciando di tanto in tanto spazio a scoppi di “graficità fumettosa” e colorata (di rosso, of course) come le bombe, o i cortei, o le icone della storiografia maoista.
In un contesto dove invece il colore NON è protagonista, che alterna grigi e marroni in tutte le sue sfumature. Ma soprattutto sono vignette (irregolari) disseminate di testo italiano, che strizza l’occhio a quello cinese, naturalmente incomprensibile a noi occidentali, e quindi anche discretamente ipnotico. Piani di lettura multipli, visivi, testuali, fotografici, cinematografici, ma anche storico-culturali, attraverso immagini che sono, come si dice in questi casi, di proprietà dell’immaginario collettivo, come la classica immagine degli scontri sessantottini con fionde nelle pagine 114 e 115.
Pensi quindi che la sua forza venga soprattutto dal versante visivo?
No, non in questo caso. Il contenuto del libro mette in gioco almeno tre piani che si intersecano, incrociandosi senza soluzioni grafiche che le differenziano (una scelta di campo ben decisa, credo, che sarebbe stato facile fare diversamente): a) il piano della storia di Wu, nonno del nostro Matteo, dalla sua venuta in Italia fino alla nascita della terza generazione a cui Teo stesso appartiene; b) la storia italiana del Novecento, mediata dalle vicende della cosiddetta “capitale morale”, sicuramente economica, che è la Milano non ancora da bere; c) la Storia con la S maiuscola, quella internazionale che la Rivoluzione Cinese, e tutto ciò che è stato prima e dopo, ha in qualche modo permeato e modificato per tutti noi, aldilà della vicinanza politica e culturale.
C’è infine un ultimo piano, sotterraneo, che è l’aspetto pienamente sociologico, che procede per scatti, per immagini, per design, per descrizioni della società italiana attraverso l’oggetto, la merce, il lavoro, il gioco, la scuola eccetera… Il motore principe del fumetto non è la “narrazione”, non è lo storytelling, ma è il tema, la storia che qui non è semplice racconto, ma si trasforma in Saggio.
In definitiva, penso che la collocazione più naturale di questa opera sia sì all’interno della saggistica, ma in una categoria che potremmo chiamare – come qualcuno fa per altri lavori (penso al recente Unflattening) – “Graphic Essays”. Una categoria di cui vale la pena augurarsi di vedere molti altri esempi, di concezione e produzione italiana.