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Adrian Tomine racconta l’America di oggi

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Morire in piedi è il nuovo di Adrian Tomine, affermato autore americano, di cui in Italia sono state pubblicate le notevoli raccolte di racconti Sonnambulo e Summer Blonde. Dopo una rapida scalata che dall’autoproduzione lo ha portato al successo, la produzione fumettistica di Tomine si è fatta un po’ più lenta e discontinua. Per leggere le sue storie si è dovuto aspettare sempre di più. Poi sono arrivati il sentimentale Una lieve imperfezione e il trascurabile, seppur simpatico Scene da un matrimonio imminente. Con la maturità artistica e i riconoscimenti – ormai copiosi –, il suo lavoro si è fatto via via sempre più trasversale, ed è frequente vedere i suoi lavori sulle copertine del New Yorker, di cui è collaboratore regolare.

Per questo Killing and Dying (il titolo originale del volume) era particolarmente atteso. Soprattutto da chi non aveva seguito la pubblicazione in albetti delle storie contenute nel volume. Sì, perché Tomine è rimasto uno dei pochi autori vecchio stile, di scuola anni ’90, a pubblicare le sue storie in albetti aperiodici formato comic book e poi a raccoglierle in volume.

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Morire in piedi
contiene racconti brevi del tutto slegati tra loro. Ogni storia narra individui diversi e contesti diversi, ma ad allinearle c’è l’ambientazione contemporanea e un comune approccio dell’autore, attento a porre la sua attenzione su figure umane relegate ordinarie o ai margini della società. Non a caso, in chiusura del volume, c’è un omaggio a Yoshihiro Tatsumi, mangaka maestro nel raccontare l’ordinario più cupo e – all’apparenza – insignificante. Per certi versi, Tomine in queste storie sembra voler raccogliere il testimone dell’autore giapponese che tanto ha amato (e di cui ha curato le recenti edizioni in lingua inglese), ma con un approccio personale, subdolamente satirico e molto americano totalmente estraneo a Tatsumi.

Questo spirito lo unisce inoltre a un approccio letterario che vuole puntare in alto, guardando tanto a Jonathan Franzen quanto a Raymond Carver (sì, nonostante sia un paragone ormai consolidato e quasi banale rispetto a Tomine, non riesco a scindere la sua influenza, qui più che mai). Come per i due scrittori americani – di diversa generazione, ma vicini nei luoghi e nella poetica (del quotidiano) – per Tomine appare di primario interesse raccontare la realtà delle relazioni che si consumano tra le quattro mura domestiche. L’importante è sempre mantenere un linguaggio – della lingua e del corpo – vero, e dare al lettore il tempo di riflettere su ogni singola reazione dei personaggi. Di fatti, la struttura delle tavole varia dalla rigida e cadenzata frammentazione in molte piccole vignette per pagina, fino a passaggi narrati con inquadrature più ampie e lente.

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Qui Tomine preferisce mettere da parte l’estetica visuale a vantaggio della ricerca narrativa e, rispetto alle linee sinuose di cui faceva sfoggio in Una lieve imperfezione, il suo segno si fa sempre più spoglio. Sembra quasi seguire un percorso creativo ed evolutivo simile a quello di Daniel Clowes, che col suo Patience ha mostrato di aver maturato un segno più schietto e semplice, meno aggraziato, che quasi torna alle origini del suo percorso artistico.

Tomine ha un formazione umanistica e letteraria prima ancora che artistica (è laureato in letteratura inglese), e in queste pagine si nota più che mai. I dialoghi sono realistici e introspettivi, assai più ricercati dei semplici disegni che accompagnano la narrazione. Ammettiamolo, dal punto di vista del segno certi episodi sono quasi una retromarcia qualitativa. I disegni sono sì a servizio del testo, difficilmente raccontano di per sè: le inquadrature sono statiche e le vignette sono scandite dalle parole e dai botta e risposta dei personaggi.

Il racconto in Morire in piedi è dettato dalle personalità degli individui protagoniste delle storie, e al centro del narrare ci sono le loro singolarità umane, descritte e delineate più da ciò che i personggi dicono che da ciò che fanno. Ciò che fanno sembra non avere mai una vera importanza nel brutale contesto sociale che le rende vittime. Per pura coincidenza, nello stesso periodo in cui ho letto queste storie, avevo ripreso in mano Le correzioni di Franzen e non ho potuto far a meno di trovare una similitudine nell’approccio. Entrambi sono abili narratori della società attuale (magari, rispetto a Tomine, Franzen eccede nello sguardo alla middle class) che si esprimono senza vezzi stilistici eccessivi, evitando particolari astrazioni o digressioni dal reale e dal contemporaneo.

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Tomine mostra uno sguardo volto a raccontare il tempo in cui vive dal punto di vista di uomini della sua stessa età. Si mette modestamente un passo indietro come artista (mai strafare, dicevamo) ma non come uomo contemporaneo. Morire in piedi è dunque opera matura, frutto della prospettiva di un individuo che si approccia alla mezza età. Per questa ragione non è un libro composto di racconti facili. Sono storie che lasciano spesso l’amaro in bocca; talvolta frammenti incompleti di vita, o scorci di contesti talmente realistici da non apparire necessariamente piacevoli, bensì tanto plausibili quanto a tratti brutalmente paradossali.

Morire in piedi
di Adrian Tomine
Rizzoli Lizard
123 pagine, b&n e colore – 19€

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