di Manuele Fior*
Giro e rigiro Meka Chan di Claudio Acciari tra le mani e mi chiedo – ma che razza di libro è? A prima vista un lungo storyboard, con tanto studi di colore e affiche pubblicitaria in fondo. Il progetto di un lungometraggio animato mai realizzato? Ha pure composto e suonato la musica della sigla. Ok, lo leggo.
Arrivato alla fine del primo capitolo ho già capito: è un fumetto. Non c’è neanche un balloon, né un’onomatopea. Il ritmo marziale dei fotogrammi – più che vignette – non fa un’eccezione: quattro righe per tre colonne. Ma lo leggo sempre più col cuore in gola. Quelle vignette grandi come dei francobolli contengono tutto quello che serve e anche di più, con una sintesi disarmante. Non è uno storyboard, è un fumetto.
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Racconta una favola di fantascienza, così classica nell’impianto da assumere i connotati di fiaba morale. In bilico tra Cenerentola e Kyashan, il mondo descritto da Acciari è una derivazione dell’immaginario televisivo giapponese degli anni Settanta, così profondamente impregnato da quell’estetica da sembrare un prodotto originale dell’epoca. Parlo non solo del disegno, ma del pathos narrativo, quell’unheimlich nipponico incarnato nell’idea di cyborg, metà uomo e metà robot. Meka Chan, l’androide protagonista, non è abbastanza robot per essere apprezzata dai suoi simili. Allo stesso tempo non è solamente umana e la sua singolarità la rende un’intrusa sul pianeta Terra. Ma non vi sto a raccontare la storia: vi dirò che si passa per un cane gigante (giallo), scappato sicuramente da un dipinto di Chagall, che viaggia tra i pianeti per fecondarli, al piccolo Takeshi che dorme in un canotto e, grazie alla sua maldestria/timidezza, salva la vita di Meka Chan e praticamente di tutto il pianeta Terra. E ancora di robot che aspirano a diventare ruggine e altre idee di rara semplicità e bellezza.
Claudio Acciari viene dell’animazione, e mette sulle pagine tutto quello che i disegnatori di fumetti invidiano agli animatori. Il ritmo impeccabile, lo storytelling a orologeria, una linea di Bic pazzesca, arrotondata e compressa come una molla. C’è un mezzo tono a Photoshop che a prima vista mi dà fastidio, poi scopro che mira a riprodurre un effetto di bassa fedeltà televisivo. Non so se ci riesce fino in fondo, ma l’intento è quello. Claudio mi ha confessato di aver consegnato intenzionalmente i file dei disegni a 150 dpi: chiunque abbia una minima dimestichezza con la stampa sa che sotto i trecento punti per pollice il grafico ti manderà a quel paese. Capisco questa sua pazzia solo quando mi mostra alcune pubblicazioni anni Settanta, riduzioni da cartoni animati (Vai Danguard!): quei fotogrammi stampati su carta non sono definiti come la stampa che pretenderei io per un mio libro, ma in quella grana grossolana sta tutto il loro fascino. Mi verrebbe da dire, come lo scoppiettìo di un vinile in un CD dei Massive Attack.
Le pagine scorrono veloci tra palpitazioni nostalgiche e la sensazione di avere a che fare con un oggetto narrativo non identificato, forse una nuova direzione. Sono alla fine del libro, mi soffermo sugli studi di colore buttati lì alla rinfusa, che testimoniano la maestria di un vedutista che padroneggia l’olio, il pastello, la tempera, l’acquerello e che scordatosi tutto passa a Photoshop e inchioda con tre colori piatti delle armonie cromatiche struggenti.
Chiudo, risfoglio, richiudo. Gli avrei fatto un bel cartonato plasticoso, invece della copertina flessibile, ma è un libro bellissimo. Per dirla con Meka Chan: BEN FATTO, CLAUDIO!
*Manuele Fior, fumettista e illustratore, è autore, fra gli altri, di: Le variazioni d’Orsay (Coconino Press, 2015), L’intervista (Coconino Press, 2013) e Cinquemila chilometri al secondo (Coconino Press, 2010) per il quale ha ricevuto il Premio Fauve d’Or come Miglior Fumetto al Festival di Angoulême nel 2011. Una sua raccolta di storie brevi è in uscita per Coconino Press, nel corso del 2015.