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Dylan Dog 351, di Ratigher e Alessandro Baggi [Recensione]

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Inutile nasconderlo. Il Dylan Dog scritto da un autore potente e personalissimo come Ratigher – di cui avevamo già parlato su queste pagine – si attendeva con notevole curiosità.

In che maniera l’autore sarebbe riuscito a mescolare la propria cifra stilistica con un personaggio nel bene e nel male così codificato e che nel corso degli ultimi anni aveva sofferto una profonda crisi identitaria che lo aveva visto smarrirsi, ormai ombra di se stesso? Avrebbe prevalso il rispetto per i codici narrativi e stilistici della casa editrice, oppure lo stile di Ratigher avrebbe soverchiato la creatura di Tiziano Sclavi, magari naturalmente snaturandola?

La risposta che è arrivata con la lettura di questo 351° albo della collana si pone a metà di queste due ipotesi. Tuttavia, chiariamolo subito, invece di una gustosa contaminazione il risultato è un pasticcio che non riesce a configurarsi né come autoriale provocazione e destrutturazione di un personaggio per molti versi mitico, né come mimetico e professionale omaggio alla ormai lunga storia di Dylan Dog. Inoltre, questo In fondo al male replica alcuni problemi delle più infelici riscritture di Dylan, trasformandolo ancora una volta in un personaggio non agente ma agito dalla storia, che finisce per subire quasi da spettatore. Deriva che la nuova gestione, al netto di molti altri difetti, aveva con forza cercato di recuperare, riportando Dylan al centro del proprio universo.

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Il Dylan Dog di In fondo al mare fa tutto quello che deve fare: dubita della cifra soprannaturale dell’evento di turno per poi convincersene; si innamora; rifiuta di bere; rende onore al proprio spirito ecologista e animalista difendendo un cane; rende omaggio alla buona musica del passato; etc. etc. Ma l’accumulo di tutte queste situazioni, messe in fila come sono nell’albo, ha più il sapore di un compito svolto svogliatamente che di una reale interiorizzazione di una personalità finzionale. Dylan Dog, come purtroppo è accaduto molte volte in passato, fra queste pagine non c’è. Ci sono le sue manifestazioni più note e superficiali, c’è il suo “identikit”, ma lui no, non appare mai.

Il personaggio è così rudimentalmente sbozzato, così didascalico, che il sospetto che dietro questa caratterizzazione si nasconda un intento parodistico è forte. L’ipotesi in sé sarebbe anche gustosa – dove si instaura un mito, nasce quasi immediatamente il bisogno, anche fra i fedeli e i fan, di una sua caricatura – se questa presupposta intenzione non fosse così labile da auto-disinnescarsi al momento stesso del suo manifestarsi. Una parodia tiepida, insomma, un ossimoro che permette a chi già contempla un intento dissacratorio di trovarne le tracce, restando invece totalmente ermetica nei confronti del lettore medio. È lecito però supporre che, all’interno di una casa editrice così fortemente connotata come la Bonelli, ci siano stati interventi di riscrittura che potrebbero avere messo in discussione le intenzioni iniziali, che traspaiono qua e là in maniera più decisa ma senza mai riuscire ad imporsi, forse in virtù della loro stessa ‘indecisione’ di partenza.

Tolto Dylan, quello che resta è una storia mal strutturata – frettolosa, con bruschi salti di scena – che suona, considerando semplicemente la professionalità della scrittura, al di sotto degli standard bonelliani.

Il moralismo tranchant di Ratigher, che nelle opere da lui realizzate come autore unico viene nobilitato dalla potenza del segno e dalla capacità di narrare per immagini – affidando al disegno quell’ambiguità che dai testi è invece maggiormente limitata – qui è diluito nell’estrema verbosità (e improbabilità) dei dialoghi, trasformandosi quasi subito in irritante didascalismo. Ogni cosa viene detta, sottolineata, ripetuta, sviscerata fino alla noia. Persino quando, nella sequenza finale, alcune immagini metaforiche – dei memento certo non proprio originalissimi – avrebbero potuto vivere di vita propria, ecco arrivare ancora una volta il fantasma di Dylan a spiegare di nuovo tutto, come l’irritante voce over di un documentario di altri tempi. E il finale apologetico, che forse si vorrebbe crudele e lucido, ma che non accompagnato da un vero crescendo di tensione risulta solo come tirato frettolosamente via, risulta il momento peggiore di questa poco riuscita avventura.

Del resto, tutti gli interventi maggiormente “autoriali” che ogni tanto si affacciano fra le pagine di In fondo al male sembrano essere stati inseriti più per giustificare il rumore creato intorno alla presenza dell’anomalo autore – forse una sorta di autogiustificazione del compromesso? – che per reale necessità. Alcune scelte hanno, naturalmente, più senso di altre. Le frequenti – soprattutto per la media degli albi bonelliani – splash page che offrono un respiro inaspettato e dissonante in alcuni punti chiavi della narrazione, riescono ad essere davvero inquietanti, rompendo inaspettatamente il ritmo piuttosto blando delle pagine che le precedono. Nel creare questo forte senso di inquietudine gioca un ruolo interessante il disegnatore Alessandro Baggi, come vedremo fra poco. Peccato però che questa inquietudine non riesca ad essere capitalizzata come avrebbe meritato, perdendosi ogni volta nel solito fiume di parole.

L’inserimento di altre gabbie anomale risulta invece pretestuoso, non solo perché rompono con evidenza brutale e un po’ naif gli stilemi bonelliani – come del resto avevano già fatto, in maniera più armonica, altri autori, primo fra tutti Sclavi – ma perché finiscono semplicemente per risultare incoerenti con il resto del lavoro. Si pensi, in particolare, alla gabbia a nove vignette sottostante, di chiara ispirazione sterankiana.

dydratigher2Questa tavola in particolare, funziona benissimo isolata nell’anteprima – e dal punto di vista della comunicazione la scelta è sicuramente ben ponderata – ma perde assolutamente ogni funzione nel contesto dell’albo. L’effetto complessivo di questi come altri stratagemmi grafici (che non anticipiamo qui per non rovinare la sorpresa) non è tanto quella dell’incontro casuale di una macchina da cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio, di lautromontiana memoria, ma piuttosto restituisce l’impressione che si può avere entrando in un negozio di chincaglierie dove, casualmente, qualche pezzo qua e là ricordi vagamente un progetto di design scandinavo. 

Vale la pena spendere anche qualche parola sul disegnatore di In fondo al male. Abbiamo già anticipato come la sua descrizione degli ambienti, soprattutto nei campi lunghi e lunghissimi, dove si abbandona a interessanti fughe, contribuisca a restituire una non ben definibile e quindi sottilmente efficace sensazione di inquietudine. Peccato che quando Baggi si trova invece a dover descrivere i personaggi, operazione che compie anche grazie ad un soffocante uso dei retini, scada in un tono da fotoromanzo che spesso affonda nel ridicolo, offrendo una delle caratterizzazioni di Dylan Dog meno apprezzabili degli ultimi anni. Soprattutto al riguardo delle parossistiche espressioni della fidanzata di turno di Dylan, torna in mente quella “Sindrome dell’Intrepido” che Antonio Faeti molti anni fa efficacemente usava per descrivere il segno, fuori tempo massimo, della coppia Montanari&Grassani.

Una prima prova, questa, che purtroppo non convince non tanto per mancanza di coraggio – non è quello della Bonelli il terreno su cui provare ad essere coraggiosi – ma di coerenza. Un autore come Ratigher, che ottime prove ha dato in passato, ci sembra sicuramente capace di fare meglio. Anche in un ambito che ancora non gli appartiene come questo.

Dylan Dog #351
di Ratigher e Alessandro Baggi
Sergio Bonelli Editore, novembre 2015
98 pag, 3,50 €

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