Premessa: il contesto
Fraternity, edito in Italia dalla Panini nella collana 9L, si apre con due citazioni. La prima è del gallese Robert Owen (1771 – 1854), uno dei fondatori del cosiddetto socialismo utopico e promotore, fra le altre riforme, anche della giornata lavorativa di otto ore al grido di “otto ore di lavoro, otto ore di svago, otto ore di riposo”:
«Un uomo non potrà mai raggiungere uno stato di benessere supremo e costante finché non sarà circondato da condizioni esterne che lo educheranno, fin dalla nascita, a provare una carità pura e un affetto sincero per l’intera sua specie e a contemplare con cuore pio tutto quanto è dotato di vita».
La seconda, troppo ampia per trascriverla qui, è invece di Josiah Warren (1798 – 1874), riconosciuto come il primo anarchico americano. In effetti, la reale attribuzione dei due brani agli autori riportati è piuttosto dubbia. Se quella di Owen risulta coerente con il pensiero politico e filosofico dell’autore (anche se quel “pio” contrasta con le posizioni antireligiose dello stesso Owen il quale pur abbraccio, negli ultimi anni, lo Spiritualismo), quella di Warren è evidentemente frutto di una rielaborazione creata a scopo drammaturgico delle posizioni del pensatore statunitense. Intitolato Diciassettesima legge della Costituzione Universale Razionale per il Governo della Specie Umana Collettivamente o per ogni Distretto preso separatamente il lungo testo viene utilizzato a mo’ di introduzione per il presente volume. Non solo offre un riassunto della vita e dei progetti di Owen, che viene qui ricordato con affetto dal più giovane Warren, sottolineando al tempo stesso le differenze ideologiche, politiche e filosofiche intercorrenti fra i due, ma serve anche allo sceneggiatore Díaz Canales, conosciuto principalmente come uno dei padri del gatto investigatore Blacksad, per introdurre, nel contesto realistico delle comunità utopiche statunitensi di stampo socialista e anarchico del XIX secolo, quell’elemento sovraumano che verrà poi sviluppato nel fumetto. Diciassettesima legge, infatti, si conclude con queste parole:
Forse per essere liberi bisognerà immaginare una natura diversa da quella umana.
Allora queste parole che scrivo non serviranno a granché, loro che, come tutte le parole, sono umane, troppo umane.
Fra Robert Owen e Josiah Warren correva più di un oceano. Il primo, infatti, oltre ad attribuire all’ambiente l’influenza decisiva sul carattere di un individuo, riflessione che portò il gallese ad adoperarsi per l’attuazione di radicali riforme nei campi dell’istruzione e del lavoro, si spendeva anche per realizzare progetti comunitari basati sulla cooperazione. Tali progetti non erano in contrasto con il sistema industriale del tempo ma, piuttosto, tendevano a sfruttarne le possibilità intrinseche, eliminando lo sfruttamento dei lavoratori e creando condizioni di lavoro più eque.
«L’unione e la cooperazione in guerra, ovviamente, aumentano il potere dell’individuo un migliaio di volte. C’è l’ombra di un motivo per cui non dovrebbero produrre effetti uguali durante la pace? Perché il principio di cooperazione non dovrebbe dare agli uomini gli stessi poteri superiori, e avvantaggiarli (in maniera molto superiore) nella creazione, conservazione, distribuzione e godimento della ricchezza?»
Differentemente, Warren, che pure era stato un entusiasta sostenitore e collaboratore della prima ora degli esperimenti comunitari di Owen sul suolo statunitense, successivamente al loro fallimento sviluppò una visione radicalmente individualista della società e del lavoro, perfettamente coerente sia con la storia e la nascente identità americana, il particolare con il mito dei Padri Fondatori, sia con i nuovi principi anarchici. Visione che lo portò ad accusare il pur sempre da lui rispettato Owen di proto-comunismo. L’individuo, secondo Warren, è un essere sovrano il quale non deve rinunciare neanche a quelle parti della propria libertà che si delegano solitamente ai principi della combinazione, della cooperazione e dell’organizzazione e che, conseguentemente, non deve essere sottomesso né alle leggi né a nessun tipo di governo.
«Tutti quelli che hanno ascoltato o letto qualcosa di mio sopra questa materia, sanno che uno dei punti principali sui quali ho sempre insistito dice che la formazione di società o di qualsiasi altra classe di combinazioni artificiali È il primo, più grande e fatale errore commesso dai riformatori e legislatori. Ogni comunità richiede l’abdicazione della naturale sovranità dell’INDIVIDUO sopra la propria persona, tempo, proprietà e responsabilità, a favore del governo della combinazione. Questo tende a prostrare l’individuo trasformandolo in un semplice strumento; coinvolgendo altri nella responsabilità dei suoi atti e responsabilizzandolo, a sua volta, delle azioni e dei sentimenti dei suoi associati; in questo modo agisce irresponsabilmente sui propri interessi, senza possedere alcuna certezza sull’esito delle proprie azioni e quasi senza una testa che osi usare per conto proprio e che, di conseguenza, non arriva mai a conoscere i grandi propositi per i quali la comunità è stata fondata».
Conseguentemente la critica di Warren al progetto utopico delle comunità fondate da Owen fu radicale.
«Il fallimento dell’esperimento comunitario di New Armony durante il periodo che va dal 1825 al 1827 mi convinse che il principio di combinazione non funziona più in là di grandi obbiettivi generali. Al contrario, dopo un’intima e rigorosa ricerca, arrivai alla conclusione che il principio opposto, quello d’individualità e il processo di DISCONNESSIONE contenevano la chiave maestra e tutto il potere di rigenerazione e redenzione in grado di risolvere i grandi problemi sociali; infatti, la nostra proposta promette tanto da risultare ingenua, le aspettative sembrano smisurate; tanto che il suo scopritore (se così possiamo chiamarlo) non osò comunicarlo ai suoi conoscenti più intimi per paura di essere considerato un pazzo. Di conseguenza, ciò che gli restava da fare era di dimostrare tutto ciò nella PRATICA prima di comunicarlo al pubblico».
Ad ogni modo, sia nella visione utopica di stampo socialista di Owen sia in quella anarchica e “disconnessa” di Warren è possibile rintracciare un ottimistica fiducia nell’uomo e nelle sue capacità di raggiungere la felicità in Terra. In Fraternity, di questo ottimismo di matrice Ottocentesca non rimane che una flebile traccia. La speranza non è più rivolta verso l’uomo ma, piuttosto, con uno scarto tutto novecentesco, si risolve, da una parte, in un primitivismo un po’ facilone, dall’altra sostituendo il mito del progresso sociale e tecnologico (e in parte anche della rivoluzione) con uno di stampo biologico: il superamento o la sostituzione dell’uomo, quindi, ormai irrimediabilmente corrotto e non più recuperabile.
L’azione di Fraternity inizia nei pressi della comunità di New Fraternity, in Indiana, nel 1863. È scontato sottolineare il riferimento alla New Harmony di Owen, anche se la storia viene ambientata quasi quarant’anni dopo la conclusione di quell’ esperimento comunitario, e cioè sullo sfondo della guerra di secessione. C’è del marcio in quello che dovrebbe essere –almeno sulla carta – un mondo ideale governato dalla fratellanza. Non solo perché nei boschi fuori dalla città si sta braccando un animale che sembra essere particolarmente feroce ma anche perché la comunità stessa si sta sfaldando dal proprio interno. Alcuni speculatori che hanno aderito al progetto, non avendo ricevuto i ricavi che si aspettavano, premono perché si torni ad istituire la proprietà privata e affinché i redditi vengano suddivisi fra i più “meritevoli”. Inoltre, all’interno di New Fraternity sta per scoppiare uno scontro che replica quello, più ideologico che fattuale, fra Robert Owen e Josiah Warren, qui riassunto attraverso la contrapposizione dei quasi omonimi Robert McCorman e Josiah Walker.
Per inciso, la preferenza degli autori va chiaramente al pratico approccio bonario del primo, piuttosto che al cinismo di stampo quasi nichilista – per lo meno nel fumetto – del secondo. I riferimenti alla Storia non si fermano qui, né si esauriscono nel dibattito interno fra le varie fazioni in lotta, che andranno crescendo di numero tavola dopo tavola. A pagina 36, ad esempio, vediamo che si sta festeggiando il primo anniversario della Dichiarazione di Indipendenza Mentale, prodotta da Owen un secolo e mezzo dopo la Dichiarazione di Indipendenza americana del 1776. Al di là di queste notazioni di colore, che servono a rendere più coerente l’ambientazione ma che per lo più possono passare inosservate senza molto danno, tutti gli elementi qui elencati e molti altri concorrono a fare di Fraternity un’opera che vuole offrirsi come riflessione sulla natura dell’uomo e sulla sua capacità di riscattarsi dalla propria condizione segnata dalla rapacità e dall’egoismo. Ed è proprio in egoismo che gli autori di questo fumetto declinano l’approccio filosofico individualista e anarchico di Warren, trasformando il suo alter ego Walker in un idealista cinico e sprezzante, il quale più che promuovere le proprie idee vi si barrica dietro, quasi a mascherare i propri mostri interiori. Sarebbe interessante, al di là delle possibilità di questo articolo e del suo autore, cercare di capire se alla base di questa profonda e non mascherata avversione verso le posizione anarchiche di Warren vi siano motivi culturali che affondano le radici in una distanza prima geografica e poi ideologica fra lui, statunitense, e Díaz Canales, spagnolo.
L’opera
Viste le stimolanti premesse, è un peccato che l’approccio scelto dagli autori di Fraternity risulti piuttosto debole e a tratti infantile. Gli unici personaggi delineati come positivi in questa storia sono, come in parte anticipato, l’ormai anziano Owen/McCorman, incapace di contrastare il crollo del proprio sogno di uguaglianza e reciproca solidarietà, un ragazzo selvaggio, forse muto e un “mostro” il quale, naturalmente, così mostruoso non si rivelerà.
Il saggio anziano e sognatore che sta per essere spodestato, il giovane cresciuto ai margini della civiltà e che viene visto come diverso e per questo perseguitato e il “mostro” che servirà a dimostrare che i veri mostri sono gli altri, gli uomini. Una triade di personaggi archetipici molto sfruttati che, grazie al loro particolare contatto con la natura, servirà a mettere in risalto la differenza etica fra un approccio al reale di stampo ancora primitivo rispetto ad uno industriale, pur declinato in chiave utopica, fra il primitivismo panico dei tre e la religione brutale, convenzionale ed escludente a cui faranno frettolosamente ritorno gli abitanti di New Haven quando si sentiranno minacciati da questo essere che non sono capaci di capire e che approcceranno solo attraverso le armi della paura e della violenza.
La brutale elementarità simbolica dei tre personaggi precipita Fraternity sulla strada di una semplificazione irritante e che i temi trattati certo non meritano. A peggiorare la situazione interviene la repentina svolta sulla strada del melodramma. Fanny, l’eroina femminile – bella, altera, compassionevole, materna, volitiva, l’unica sincera interprete del pensiero di McCorman – è al centro di un triangolo amoroso che vede agli altri due vertici Walker e Alexander. Quest’ultimo, il vero grande amore della donna, da cui lo divide solo la differente visione dell’utopia di New Fraternity, è tornato improvvisamente e melodrammaticamente da un lungo viaggio. Un triangolo che, grazie anche al periodo storico scelto – la guerra di secessione – rimanda fin troppo espressamente a Via col vento. Fanny chi altro è se non una Rossella O’Hara sulla quale più di ottant’anni di riflessione sul ruolo delle donne hanno lasciato il segno di un femminismo all’acqua di rose? Walker naturalmente riveste, probabilmente malvolentieri, i panni di Rhett Butler e Alexander quelli di Ashley Wilkes.
L’unico reale tentativo di aggiornamento risiede nell’inserimento nella trama di un gruppo di disertori di colore che vanno a rifugiarsi fra le mura della piccola comunità, naturalmente rivelando il mal sopito razzismo ribollente sotto la pelle dei suoi egualitari abitanti. Peccato che anche la scelta di questo elemento sembri per lo meno pretestuoso, anche se ben giustificato dal contesto storico. In una struttura così fortemente a tema come quella di Fraternity si può affermare, in senso neanche troppo lato, che non esistono persone né personaggi, ma solo inneschi. Ognuno dei protagonisti di questa storia, infatti, sembra avere l’unico scopo di innescare una reazione negli altri, prestandosi come cartina tornasole per le loro ipocrisie. Peccato che in un fumetto in cui la scrittura dei caratteri così come la loro resa grafico-fisiognomica è così calcata, lo svelamento risulti per lo meno superfluo. Non viene infatti lasciato nessuno spazio all’ambiguità. I cattivi sono immediatamente riconoscibili come tali; lo stesso può dirsi per i “buoni”. Le poche sfumature che i personaggi acquisiranno o sveleranno nel corso della narrazione di sicuro non lasciano spazio ad una vera sorpresa, al pari dei davvero deboli colpi di scena.
Dopo le prime tavole, insomma, si fa presto a scadere nella ripetitività, nella noia e nel già visto e il tutto si conclude come forse molti lettori potranno facilmente immaginare. È anche una questione di tempi. Ci vuole del talento per gestire una materia tanto complessa quanto quella scelta in poco più di cento tavole e il pur notevole autore di Blacksad sbaglia completamente il passo, ricorrendo a dei luoghi comuni triti che vanificano e mortificano gli spunti iniziali, di certo molto interessanti. Perché ridurre un dibattito così interessante, pur volgendolo in chiave spettacolare, fondamentalmente a una questione di gelosie e di rivalità amorose? Il problema non risiede nel voler fare un’opera a tema, ma nel non riuscire a rendere quella complessità che probabilmente si voleva restituire al momento di scegliere questo complesso scontro ideologico come centro della propria storia. Il tutto, in fin dei conti, si risolve in un “l’amore ci salverà” (sentimento vs ideologia), senza che però questa tesi venga sviscerata in maniera convincente, mettendo a nudo lo sceneggiatore che si dimostra inferiore persino ai propri personaggi. Uno spunto interessante è rintracciabile, ancora una volta svolto in forma di contrapposizione. Si parla molto, in Fraternity. In un mondo da riformare se non propriamente da inventare c’è molto da discutereIl linguaggio verbale/orale, così suadente nella a volte persino lirica prosa dell’utopia egualitaria, non si concretizza mai però nel mondo oggettivo, fattuale, il sogno non diventa mai pietra né eguaglianza: suona a vuoto, e le parole stesse non sono come pietre, ma mentono e mutano. Allo stesso tempo le parole segnano, deformano la realtà: “negro”, “mostro”, “selvaggio”. A questo involucro vacuo e inaffidabile, il linguaggio degli uomini, gli autori contrappongono la coppia ragazzino-mostro, i cui componenti sono entrambi incapaci di parlare. Eliminato il filtro della parola, che imita e a volte contribuisce a corrompere il reale, sarebbe possibile dunque, secondo la visione espressa in Fraternity, approcciarsi al mondo in maniera inedita e maggiormente genuina. Peccato che questa interessante idea venga fatta cadere dall’alto e sviluppata solo a livello suggestivo, senza nessun tipo di approfondimento.
I disegni di Munuera non aiutano. Anche se capace di rendere in maniera convincente i paesaggi e gli ambienti (alcuni davvero splendidi), il suo segno risulta piuttosto neutro nella sua sintesi cartoonistica, non aggiungendo molto alla caratterizzazione dei personaggi, tranne quando si tratta di ritrarre i cattivi come tali, cioè quando la sintesi si evolve verso la maschera e la caricatura. L’approccio ai volti di Munuera è, per dirla in altre parole, quasi sempre Lombrosiano, coerentemente con il tono semplicistico della sceneggiatura di Díaz Canales. Vedendo i suoi bozzetti in bianco e nero si ha la sensazione che il colore abbia contribuito al tono soffuso e piatto che caratterizza queste tavole, realizzate con un alto ma un po’ freddo professionismo, soprattutto per quello che riguarda le ombre, che qui risultano particolarmente artificiali nel loro inopportuno iperrealismo. Le sue tavole, in bianco e nero, avrebbero avuto probabilmente altro impatto.
Un’opera, insomma, che si fa leggere, ma in cui il lettore rischia di trovarsi sempre un passo avanti rispetto a una storia che non riserva grandi sorprese. Le ambizioni di partenza, probabilmente, erano tutt’altre.
Fraternity
di Juan Díaz Canales e José-Luis Munuera
Panini 9L, 2015
122 pag., 19,00€