Riuscite a immaginarvi La linea d’ombra di Conrad rivisto attraverso gli occhi dello Hirohiko Araki de Le Bizzarre Avventure di Jojo? Ve lo dico io: probabilmente no.
Per nostra fortuna il giovane Tommaso Spugna si è rimboccato le maniche e ha deciso di colmare questa incresciosa lacuna consegnandoci il suo debutto sulla lunga durata. Una Brutta Storia (GRRRz, 2014) è il volume di cui andremo a parlare tra poco. Intanto, ci dà la scusa per aprire una parentesi sulla situazione del fumetto italiano e sull’importanza che opere come questa potrebbero avere al suo interno.
Se ci si mette nei panni del neofita sprovvisto di una guida più o meno illuminata, genuinamente deciso ad appassionarsi al fumetto di produzione autoctona, ma incapace di tracciarsi una rotta ben definita, ci si troverebbe presto davanti a un bivio. Oltrepassata la landa dei classici intramontabili e giunti in territorio contemporaneo, dovremmo scegliere tra una strada che procede dritto verso produzioni di pura evasione, costruite sul mito del buon artigiano, concepite per un consumo rapido e estemporaneo, oppure dirigerci verso i lidi delle produzioni dotate di evidenti qualità artistiche (anche se, a voler essere maligni, verrebbe da dire che anche su questa sponda i buoni artigiani non mancano), completamente incentrate sull’intimismo.
Una divisione piuttosto sommaria, magari anche urticante per qualcuno, ma in cui – siate onesti – finiscono almeno il 90 % dei volumi italiani che potreste avere letto nell’ultimo anno. Rimangono fuori il giornalismo a fumetti, certo, così come alcune esperienze di vera e propria ricerca artistica. Ma anche tra questi ultimi, il bilancio è appesantito da non pochi esercizi di stile, troppo innamorati della propria voce per avere un peso reale.
Chiarita questa cosa, mi pare evidente che un sacco di potenziali consumatori rimangano tagliati fuori da un’etichettatura così impietosa. A spanne, i più penalizzati sono coloro i quali vogliono leggere “grandi storie di genere”, in cui un autore porta sì avanti in maniera decisa una sua personale visione, ma senza farci passare le ore a rimirare la sua lanuggine ombelicale. Sarebbe una specie di terzia via, dall’apparenza conciliante, ma in realtà dotata di un peso enorme nella storia della cultura di massa. Basti pensare a quanti film, libri o dischi sono nati con il puro desiderio di intrattenere il pubblico, dimostrando con gli anni una formidabile capacità d’invecchiamento, data – non a caso – dalla profondità e dall’autentico genio “nascosti” sotto una (furba? naturale? Poco importa) coltre di leggerezza.
Percorrere questa strada significa incappare immediatamente in un nuovo bivio, meno evidente del precedente ma altrettanto importante. Due sentieri poco battuti che forse potrebbero trarre in inganno il neofita di cui si parlava prima, ma la cui differenza appare lapalissiana a chiunque mastichi qualsiasi tipo di narrazione da almeno qualche anno.
La nuova scelta sarebbe tra un fumetto di genere estremamente ricercato e indirizzato a un grande pubblico (settore merceologico che comprende titoli esteri come Battling Boy, Sex Criminals, Watersnakes, Universal War 1 e 2, Locke & Key, le storie patinate di Jiro Tanighuci o l’italianissimo Golem di LRNZ) e il suo fratello scapestrato, quello con i piedi ben piantati nell’undeground più intransigente, ma che forse gradirebbe vendere più di 15 copie fotocopiate. In questa categoria ci finiscono Johnny Ryan, C.F. (quello di Powr Mastrs), Shintaro Kago, Charles Forsman, Michel Fiffe, Sam Bosma e un sacco di altra gentaglia da adorare incondizionatamente.
In Italia, da amanti delle complicazioni quali siamo, abbiamo i Fratelli del Cielo (ex SuperAmici). Tanto talentuosi da crearsi un percorso apposta per loro, sospeso tra le ultime due possibilità descritte. Valerio Mattioli, in un bellissimo articolo su Internazionale intitolato Una vecchia storia del nuovo fumetto italiano parla di questi ragazzi in termini meritatamente lusinghieri:
Ma quell’estetica caotica e surreale, infarcita di rimandi al cinema di serie B, ai giochi di ruolo, alla fantascienza e al fantasy, è quasi il negativo assoluto dell’intimismo indie tipico della new wave del fumetto italiano. È anche per questo che Tuono Pettinato e compagni rappresentano un’anomalia: è come se per dieci anni avessero guardato da un’altra parte, fino a scoprire un po’ a sorpresa che, accidenti, era la parte giusta.
E proprio qui si voleva arrivare. Sulla cronica mancanza in suolo italico di altri componenti di questa sorta di branco di cani sciolti. Non si vuole andare a indagare se il problema sia nel pubblico (aspetto presente anche all’estero, vedi Picture Box morta e defunta, o Fantagraphics ormai allo stremo delle forze), nella cecità dell’industria o nell’incapacità degli autori di puntare i piedi e svettare.
Si sa solo che quando ci si ritrova a leggere l’Iron Gang di Officina Infernale, From Here to Eternity di Guarnaccia, Vivi e vegeta di Savino, Simeone e Magalotti o, appunto, questo Una brutta storia ci si rende conto che anche il genere più abusato, se approcciato con la giusta freschezza e impeto d’autore, ha ancora un sacco da dire. Soprattutto, e per nostra fortuna, proprio su chi lo scrive e lo disegna. Gli esempi elencati non potrebbero che essere più diversi tra loro, sicuramente tutti tacciabili di diversi difetti e ben lontani dalla perfezione. Eppure sono il frutto di un desiderio sentito e tangibile di dire la propria su qualcosa che si ama davvero fino in fondo, mettendosi a nudo. Che sia il fumetto supereroistico, il teen-drama a sfondo musicale, il noir o Conrad innamorato dello splatter di Araki.
Perché alla fine dei conti Una brutta storia non è che il racconto di un marinaio costretto a passare da pivello del gruppo a vecchio lupo di mare nell’arco di un’unica, disperata avventura. Lo sbarco su di un’isola misteriosa alla ricerca di un agognato tesoro, i pericoli dello sconosciuto, l’orrore sotto i nostri piedi. Una metafora abbastanza chiara che non ha nulla di nuovo, se non la foga con cui viene aggredita. Alla stessa maniera la carne viene straziata, deformata, mutilata per pagine e pagine. Una sorta di hellzapoppin’ sospeso tra la claymation e lo splatter del Peter Jackson pre-investitura a messia elfico. Ed è proprio questo di cui si parlava prima.
Se voglio parlare di come si diventa adulti, di come ci si conquista il proprio posto nel mondo reale, non è necessario farlo riempiendo pagine di acquerelli o di gente che fissa il vuoto. Lo posso fare benissimo disegnando un marinaio che muta in una sorta di incrocio tra Popeye e un tumore maligno, con tutte le conseguenze del caso per chi gli sta accanto.
Poco importa se l’afflato narrativo del volume sia effettivamente esile, schiacciato dai blocchi di pagine mute concesse all’amore per lo scontro fisico. E che qua e la faccia capolino qualche debito di troppo. Siamo agli inizi di un percorso e un’energia così strabordante tende a far perdonare un sacco di cose. E se continuate e vedere quei piccoli difetti veniali, allora il problema è tutto vostro.
Come spesso succede in questi lidi sospesi tra pop culture e autorialità, il fumetto ritorna fumetto puro e si divincola dalla definizione di libro illustrato che troppo spesso gli viene infilata a forza. Le tavole potrebbero parlare benissimo da sole anche senza balloon e didascalie, mentre la narrazione procede a ritmo sfrenato sfruttando solo i meccanismi propri del linguaggio cui appartiene.
Potremmo parlare di questa cosa come della differenza più sintomatica tra l’intimismo indie di Mattioli e le derive fuori controllo di Spugna. Se da una parte trionfa – e non è assolutamente un male, si parla solo di scelte – la stasi della riflessività, il piccolo evento dilatato per intere pagine, su questa sponda il lettore deve essere frastornato. Come in un continuo gioco al rialzo, si deve procedere alla velocità della luce. Un atteggiamento quasi puerile – siamo sospesi tra il bambino che non smette un attimo di tirare la gonna della mamma e quello che,alle prese con la sua prima storia a fumetti, ci infila tutto quello che gli piace – ma che testimonia ancora una volta la voglia divertirsi e stupire. Di lasciare un segno nonostante tutto.
Chissà se il combattivo Spugna se la prenderà, visto che questa recensione è diventata altro. Proprio come il suo protagonista. Ma dal mio punto di vista, lo spunto generato dal suo libro si prestava a una riflessione più ampia. Proprio come succede con i libri seri, quelli senza splatter e marinai che menano come fabbri.