G – Non l’ho capito, te lo giuro. L’ho capito dopo. [Risate] Sono stato lì, con la bavina bianca… c’era dentro The Last of Us Remastered con l’espansione… ma “No, no, non la voglio.” E poi, dopo, ho capito che era una trappola.
R – Quindi hai passato il test.
G – Ho passato il test.
[Domanda dal pubblico. Audio non registrato]
G – Metodi di scrittura ne uso tanti. In S. ad esempio mi sono imposto di non riscrivere mai le cose. In Questa è la stanza, in tutte le scene dove i ragazzi suonano, non facevo mai le matite, ma disegnavo direttamente a penna, sbagliando, disegnando un braccio storto e un altro sopra per rimediare. Perché confidavo che in quella perdita di controllo del disegno si riproducesse anche l’incapacità di suonare nostra, che avevamo al tempo, lo spirito di gruppo punk di 17 anni dove la qualità musicale non interessa, conta solo l’energia data dallo stare assieme. A volte può essere la scelta di una gamma di colori… Invece ho avuto ad esempio un sacco di problemi con le figure femminili. Io sono un maschilista convinto, però quando disegno ho sempre paura di cadere nello stereotipo che le donne nei fumetti devono essere gnocchette con le chiappe ritte ecc. quindi ho studiato tanto per fare una decostruzione del disegno della figura femminile, in modo tale da trattarlo male come quello delle figure maschili.
Sono menate, me ne rendo conto, sono robe che hanno importanza solo per me. Però per me hanno importanza sulla base di un discorso più serio: quello del talento. Ho sempre pensato che l’unica cosa che mi premeva seriamente fosse quel briciolo di talento che ogni tanto avevo quando lavoravo e questa cosa qui faceva sì che avessi un continuo terrore di perderlo. Voi vi chiederete: perché uno ha il terrore di perdere il talento? Ci sono troppi autori di una certa età su cui la gente si accanisce in modo pesante, dimenticando i lavori belli che hanno fatto in passato. Mi sono sempre chiesto com’è che un artista si rincoglionisce e diventa stronzo da un momento all’atro. Penso che l’aspirazione sia sempre la solita: tu vuoi vivere stando in un’espressione artistica e poi arriva un giorno in cui quell’espressione artistica si modifica, perdi il talento e inizi a fare roba che non è più te o almeno quello che eri. Mi chiedo come questo possa accadere e, soprattutto, come posso ritardare questo processo che sembra essere inevitabile. E allora mi rispondo con una serie di pratiche etiche e materiali che confluiscono nel lavoro. C’è molto il gusto della distruzione di qualcuno nel quale tu ti sei rivisto: per anni leggi un autore a cui ti senti vicino e aspetti il momento che ti deluda per poterlo divorare. È una roba che vedo succedere in continuazione.
R – Da una parte è una cosa che diceva anche Frank Miller: il talento ti rende diverso, ti solleva un pezzettino.
G – Fosse solo per la fatica fisica che impieghi rispetto alla gratificazione che ricevi…
R – La fatica fisica ce la può mettere solo chi il talento non ce l’ha. È vero che alcuni autori hanno quel qualcosa in più che li eleva. Quando ti puoi elevare non fai altro che dire a gli altri che loro stanno più in basso. E allora c’è la voglia di non vedere l’ora di volerti divorare, di volerti dire: “guarda che sei uguale a tutti noi, forse peggio.” Questa voglia c’è, sopratutto nei fan.
G – Soprattutto nei fan più accaniti, quelli che ti hanno seguito dal primo libro, quando ti leggevano in 100 persone.
R – Non vedono l’ora di vederti cadere.
G – Non ho paura di quello, ho paura di quella sensazione orrenda che ho provato… perché per cinque anni non mi è uscito nulla di buono, a fumetti. La paura di mettersi al tavolo e all’improvviso la carta non ti parla più e la penna e la mano non vogliono andare d’accordo, e quella sensazione fantastica di abbandono che hai quando l’espressione artistica ti travalica non c’è più. È una delle sensazioni peggiori che ho provato in vita mia. Dopo essere “guarito” vivo col terrore che mi ritorni.
R – Tu hai parlato di fatica. Per esempio, io vedo che quando scrivo di cose che mi piacciono la fatica arriva solo quando mi fermo, perché son capace di andare avanti.
G – Ma io dicevo fatica nel senso che non ne fai. Chi vive col lavoro che facciamo noi non si deve scordare che è un privilegiato. Quella condizione di privilegio non la voglio perdere, anche perché ho 50 anni e non so far altro. Ho fatto pure un film perché non mi venivano più i fumetti. Per vedere se trovavo un altro mestiere! Mi hanno detto che i greci antichi – frase a cazzo – risolvevano questa cosa qui dicendo che uno non era un genio, ma che uno aveva il genio. Ho capito che il genio è una roba che sta con te. Quando facevo Appunti per una storia di guerra e vedevo che mi veniva bene, avevo la sensazione di avere un uccellino sulla spalla che mi parlava – dopo di questo c’è solo il TSO. (Risate)
R – vabbè Howard diceva di averci Conan ad intimarlo da dietro le spalle…. (ridono)
G – Vuol dire che mentre scrivi i dialoghi succede sempre che ti sorprendi. Cioè non pensi a quello che fai, ma quello che fai si verifica nonostante te. Nonostante te nel senso che te sei una cosa molto peggiore del lavoro che viene fuori sulla carta, cioè i personaggi sono molti più onesti e veri di te. E appunto i greci dicevano che una persona ha il genio, ma non si sa per quanto tempo. Quando disegnavo avevo sempre la paura di far una mossa strana e far scappare l’uccellino. Nei cinque anni che non riuscivo a creare nulla avevo l’impressione che se ne fosse andato, chessò, da Zerocalcare. (Risate)
R – Ma se non fosse tornato, avresti ripreso a far fumetti senza fantasia?
G – No, dei fumetti non me ne è mai fregato un cazzo.
R – Ci ho messo un anno a fargli leggere una storia di Dylan Dog… (Risate)
G – Ora lo sto leggendo un po’… Tutti dicono: “è snob, è snob”, ma son sempre con la testa su qualcos’altro capito? È come guardare i film porno quando vuoi fare l’amore… uno – vabbè, tu no – ma uno di solito preferisce far l’amore che guardare i film porno. Tu no…
R – non lo so, dipende… (Risate)
G – Ho sbagliato esempio. Lasciate perdere (Risate). Voglio dire ho sempre la testa su qualcos’altro. Suonare, fare video, ecc… non c’ho mai l’atteggiamento d’appassionato del lavoro altrui. Unisci a questo il fatto di essere un vigliacco, cioè il fatto che ho sempre paura di leggere roba che spacca i culi, che mi paralizza e che mi fa sentire un insetto – ché ho sempre tenuto le robe distanti. Son stato proprio male, per cinque anni. Quel male brutto, perché quando mi chiedevano: “ma i fumetti?” rispondevo “no, a me non mancano assolutamente”. Spesso faccio questo esempio: sei innamorato di una fidanzata che poi ti lascia e ti costringi a dirti che in fondo non ti piaceva così tanto (risate) e che anzi, la trovavi bruttina, una stronza. Ma in realtà sei lì che piangi. E io l’ho vissuta così. Ho cominciato a dirmi che il mio percorso era un altro e che il fumetto era stato una parentesi, ma in realtà pativo come un cane. Quando è tornato ho sentito proprio la differenza. È il mio mezzo, non ci posso far nulla per quanto ogni tanto provi a svicolare.
R – Ma ci credi in queste cose? Io ci credo fermamente nel mezzo che scegli per esprimerti. Anche a me capita di fa altro, ma quando torno al fumetto dico: “Ah, casa mia.” Ma non per praticità: perché è proprio la mia forma espressiva di elezione. Non credo di essere io ad aver scelto il fumetto. È il fumetto che in un certo senso ha scelto me.
G – Anche io la penso così, però la vivo in percentuali di dedizione, cioè: mi rendo conto che in 50 anni di vita, nell’ottantacinque percento dei casi, la mia applicazione è stata su quel mezzo li. Se fosse stata sulla chitarra, probabilmente il mio mezzo espressivo ora sarebbe la chitarra.
R – Ma ci sarà stato un momento in cui l’hai scelto. Io a tre anni ho detto a mia mamma che volevo fare fumetti e non ho cambiato idea.
G – Io pure, da piccino. Ho delle tavole di beduini che si picchiano con quelli della Legione Straniera. Avevo tipo 5 anni. E ieri ho capito da dove venivano, perché ho visto lavori di Pratt che non vedevo da quando ero piccolo … che sono legnate nella testa … di quelle atomiche. E sì, non lo so il perché. Uno poi non se lo chiede nemmeno, sticazzi. Perché Coltrane suonava il sassofono? Menomale! Pensa se faceva lo chef in tv. (Risate)
R – Se l’è tirata e si è paragonato a coltrane. (Risate)
[Domanda dal pubblico: “Qual il limite dove arrivi a dire e decidere: “questa cosa non la racconto?”]
G – Per me è facile. Le cose che riguardano me, nel momento in cui mi viene il desiderio di scriverle, le scrivo. Quelle che non devo scrivere non mi viene il desiderio, cioè non lo so nemmeno che ci sono. Ne La mia vita disegnata male, per chi non lo ha letto, ho fatto 12 pagine dove racconto di quando da ragazzo sono andato in galera. Solo che ci son stato 10 giorni. Io ora lavoro coi carcerati a Pisa, come volontario. Insegno disegno. E non puoi raccontare della galera dopo esserci stato solo 10 giorni. Sei ridicolo, capito? Già uno che ci è stato 20 ne sa più di te. Come quando c’era la guerra in Iraq e io non ho mai pensato di raccontarne, perché ho pensato che qualsiasi paracadutista della Folgore ne sapesse più di me.
R – Ma tu hai anche raccontato della guerra.
G – Ho raccontato, ma non ho fatto vedere un cazzo della guerra. Perché in Appunti ho raccontato come sono cresciuto: un ragazzino borghese di famiglia ricca che per alcuni casi della vita si trova a crescere con amici disgraziati. Elegge questi amici a sua famiglia e passa tutta la vita a cercare di essere uguale a loro. Cosa impossibile, perché io credo fermamente nella divisione dei ceti sociali. Appunti parla di quello: un ragazzino privilegiato che sceglie di vivere con due ragazzini che non hanno un cazzo, col desiderio di essere fatto della stessa loro sostanza, senza riuscirci mai.
Quando ho disegnato quella parte lì, della galera, io ero stato in cella con uno condannato per terrorismo, ma che in realtà non aveva fatto un cazzo. Volevo raccontare di lui, solo che poi mi son chiesto: con quale autorità posso raccontare di lui? Capito? Per cui ho raccontato in modo buffo il mio ingresso in galera: il fatto che mi han messo le dita nel culo e le robe che fan ridere, ma la parte che riguardava un’altra persona… Quella cosa lui l’aveva vissuta per quattro anni e mezzo, in attesa di processo, torturato più volte, ecc; quella roba la deve raccontare lui, oppure un giorno mi contatta e mi dice: “io scrivo, tu disegni”. Ma la responsabilità non la voglio prendere. Mi ricordo che feci vedere a Igort – il mio editore – alcune di quelle pagine e lui mi disse: “bellissime, queste sono il cuore del libro perché è uno squarcio su un epoca, le BR, la violenza della polizia…”. Tornai a casa e le buttai via tutte.
R – Questo punto mi solleva una questione: la decenza. Cioè quella dignità narrativa che mi che mi fa pensare: “questa cosa non la racconto perché non ne ho il diritto e la competenza.” Ho la decenza di non raccontarla, perché sarei un cialtrone.
G – Di base, non raccontare un cazzo che tu non conosca personalmente. Voglio io raccontare il dramma degli immigrati che attraversano il Mediterraneo? Non ne so un cazzo. Vado a lavorar con gli immigrati, ci sto cinque anni, li conosco, ci faccio amicizia, mi innamoro di qualcuno, lo vedo soffrire. Forse a quel punto lì hai una voce. So che è una cosa che fa girare i coglioni, e ho visto su Facebook gente in lacrime per un orso. Che vi devo dire? Va bene. È il mondo contemporaneo. Mi rendo conto che più vado avanti negli anni e più mi stacco da questa roba. Tra l’altro è anche un processo distruttivo, perché mi stacco non solo dall’orso, ma anche dai popoli – se non ho un esperienza reale. Mi sento meno coglione, a non indignarmi per cose che non conosco.
R – Stephen King diceva: “scrivi solo di quello che conosci”…
G – Mi ricordo di quando lavoravo a Cuore. Una volta venni mandato a fare un reportage a Genova, nel quartiere malfamato di via Pré. C’era uno scrittore italiano molto famoso con me, e avevamo due ragazze molto carine del posto che ci dovevano portare a vedere le situazioni di disagio che c’erano in giro. E lui cosa fece? Disse a una delle due: io mi chiamo tizio, sei molto carina, beviamoci questo Campari al bar, raccontami la situazione. Passavano le ore e dopo un po’ capii che non ci saremmo mossi dal tavolino perché lui doveva intortare la tipa, bere il Campari e scrivere il suo pezzo. Io dissi: “scusate, io sono un disegnatore, che cazzo faccio? Se io non vedo le cose, come faccio a raccontarle? Non dico di capirle, perché figuriamoci se capisco la situazione di una città che non è la mia standoci un pomeriggio, ma almeno fammela vedere.” A un certo punto lasciai il tavolino, feci un giro e realizzai un pezzo che non sapeva di nulla. Però almeno la città l’avevo vista. Non credo nell’idea di verità, ma credo un pochino nell’idea di sguardo: cioè che tu sia lì, che i tuoi occhi siano due buchi dove entra la luce. Poi la luce sarà riflessa da qualcosa che ti proietterà un’immagine sulla retina che è li. Per esempio, questa cosa qui mi fa venire in mente la fotografia. Pensa alla fotografia moderna, che cazzo è? Cosa sono i fotografi oggi, quando qualsiasi imbecille con Photoshop può realizzare cose complicate e affascinanti? Per me ora un fotografo è soltanto uno che va nei posti dove io non ho i coglioni per andare.
R – È un testimone che mette l’occhio dove…
G – …ci mette il culo, più che l’occhio.
R – Si, di solito son legati insieme… (Risate)
G – E lì siamo sulla pratica. Te fai una scelta di esistenza dove la pratica tua è quella di stare in un posto dove vivi una roba forte, pericolosa, di disagio, ma anche di lusso e di godimento. Però sei lì, capito? Sei lì, la senti, anche perché ti misuri con te stesso. Mi ricordo all’inizio della guerra in Iraq – una delle tre – stavo cenando e arrivarono dei filmati – al tempo non eravamo abituati a vederli come adesso – di un convoglio di persone che stava lasciando Bagdad mentre veniva bombardata dagli americani. E c’era questa carrellata da una macchina in parallelo che riprendeva questi automezzi fumanti, un morto… E a un certo punto c’era un piede, una scarpa con un pezzo di gamba che era rimasta dritta, col piede che fumava. Rimasi molto colpito da questa immagine e immediatamente, visto che lavoravo per Cuore e in sostanza il mio mestiere era quello di indignarmi a comando, andai subito a fare un pezzo disegnato e scritto. E già mentre disegnavo cominciavo a darmi del coglione. Ma quale esperienza hai di una cosa che vedi in tv? Qual è l’odore di uno stinco umano arrosto? Di chi è quello stinco umano arrosto? Non lo so
R – Però quello che puoi raccontare… e questo per non cadere nella retorica alla Hemingway che poi effettivamente parla solo di quello che conosce e quindi la tua sfera umana come narratore si restringe molto, tipo se vivi a Roma…
G – Però ti puoi muovere, soprattutto se hai 20 anni. A 50 fai un po’ più di fatica. Però non è che devi andare chissà dove. Sennò basta che ti accontenti…
R – Chiaro, però c’è la retorica dell’esperienza e dall’altra ti dico: però io ti posso raccontare quello che mi suscita guardare la televisione. Quello è il racconto.
G – Quella è una buona base di racconto, che almeno ha una parte di onestà.
R – Certo, non ti racconto la guerra, perché non la vivo. Però posso raccontare le mie emozioni.
G – Il mio problema è che, mezzora dopo, quel fatto me l’ero scordato. Mi vennero a trovare degli amici e ci mettemmo a giocare a Fifa alla Playstation. E me lo ero scordato. Ora, magari sono così disumano che me lo scordo anche se sono lì e lo vedo in prima persona. Però non credo, qualche esperienza forte in vita mia l’ho avuta e sinceramente mi son rimaste in testa per sempre e mi hanno modificato. Perché la cosa pazzesca e che mi interessa molto non è tanto la testimonianza che puoi avere, ma la percezione di cosa succede a te come essere umano. Cioè, ma te, cosa cazzo sei? Ho questa idea che devi misurarti con te stesso, devi sapere come sei fatto. Come reagisci quando casca una bomba sulla casa di una famiglia che ti ha ospitato a cena la sera prima? Secondo me se non sei lì non lo puoi sapere e tutto quello che vedo raccontato di sponda a me non interessa minimamente. Allora preferisco come ho fatto nel mio lavoro, raccontare quelle tre cazzate di provincia che ho vissuto, dando una forma il più affascinante possibile a chi legge e lasciare il resto a chi ha più palle di me.
R – Però penso a Hanno ritrovato la macchina, che è un racconto di genere, un noir. Dubito che tu abbia avuto un’esperienza così “crime”. Però l’umanità che viene portata all’interno di quel racconto è un’umanità reale, di persone che hai conosciuto e visto e di situazioni cha hai sentito.
G – Hai ragione, fai bene a dirlo.
R – C’è sempre il discorso che devi avere vissuto tutto, quell’umanità che poi puoi riversare nel racconto. Per cui poi, puoi raccontare tutto in realtà, se trovi l’ottica giusta attraverso di te. Nel senso: puoi raccontare di Tex, per assurdo, e farne un racconto profondamente umano. Poi lascia perdere, che in Tex non succede; però… (Risate)
G – Infatti hai ragione, non so perché son finito in questo discorso integralista, non me lo ricordo più.
R – In realtà concordo con te. Solo ti dico che bisogna pure raccontare l’altro lato, se non credi che per raccontare dei toreri devi per forza fare la vita di Hemingway.
G – Sì, certo.
[Domanda del pubblico. Audio non registrato]
R – Secondo me nella storia del fumetto italiano seriale ci sono almeno due autori simbolici. Uno è Gianluigi Bonelli (ma anche Sergio) e l’altro è Tiziano Sclavi, che ha fatto 150 albi di Dylan Dog in cui racconta tutto se stesso non mettendosi mai all’interno della storia. Dylan è Tiziano Sclavi. Non il personaggio Dylan Dog, ma il fumetto Dylan Dog è Tiziano Sclavi. Se poi vai a leggerti i suoi romanzi, come Non è successo niente lo trovi uguale, non cambia nulla. Dylan gli ha permesso di raccontarsi più di quel romanzo, ad esempio, che pure è uno sputtanamento devastante, ha chiesto che non venisse più ristampato. Un libro Mondadori, pensate.
Idem Gianluigi Bonelli. Era un matto vero, che viveva una vita sopra le righe. Girava con la pistola, viveva come se fosse Mike Spillane. Faceva cose veramente fuori di testa, che però corrispondevano esattamente al personaggio che ha creato, cioè Tex. Tex e Gianluigi Bonelli hanno una tensione tale nel linguaggio oltre che nelle azioni. Una delle cose che hanno reso Tex un fenomeno italiano che dura ancora oggi è il linguaggio incredibile che Bonelli ha saputo creare. Oggi Gianluigi Bonelli viene visto solo come creatore di un personaggio popolare, in realtà era un grande scrittore di dialoghi, uno dei migliori dialogisti di fumetto che abbia mai letto. Aveva una testa che girava “strana” rispetto a quella degli altri e questo linguaggio diventava la sua proiezione. Se Bonelli non fosse stato così, Tex sarebbe stato diverso. I bravi autori comunque stanno in tutto quello che scrivono.
Quando le persone leggono Mater Morbi pensano che, in ambito seriale, sia la mia opera più autobiografica. Personalmente ritengo che le mie storie più personali siano quelle dei samurai fatte con Andrea Accardi. Perché nel modo in cui ho usato il linguaggio, nell’idea della gabbia, nell’idea di un certo rigore, più che nel contenuto, li c’è la mia espressione di me. È un’espressione molto semplice, precisa, identificativa. Se leggete un fumetto che è – tra virgolette – commerciale come Orfani, il cosa mi rappresenta molto di meno del come. Nel come, le persone che mi conoscono bene capiscono che sto lì. Ho il culto del gesto. Per me il gesto definisce l’essere umano. Quindi siamo definiti dalle nostre azioni e dai nostri pensieri. Se leggi Orfani c’è molto di me, là dentro. Per me il contesto produttivo conta davvero poco. Conta l’onestà e la volontà degli autori di fare belle storie. Se gli autori hanno talento – che è una cosa che magari ci viene dall’alto, magari ci nasciamo, magari la costruiamo, però il talento conta. Conta l’impegno, la fatica che ci metti sopra e la volontà di far qualcosa di notevole invece che timbrare il cartellino. Conta una certa onestà, e l’onesta è la cosa più faticosa da ottenere in termini narrativi.
Noi ci mentiamo costantemente mentre lavoriamo. È la ragione per cui ritengo Gipi uno degli autori del fumetto italiano più importanti di sempre. Poi il modo in cui questo viene declinato dipende. Non voglio dire che tutti i fumetti Bonelli siano l’espressione degli autori, la maggior parte sono quello che sono, cioè un prodotto di intrattenimento ben fatto. Ma molti questi fumetti trasmigrano completamente il punto di vista degli autori. Sempre. Pratt ha sempre parlato dell’avventura attraverso un personaggio, un’icona che non lo rappresentava. Eppure Corto e i suoi lavori sono Pratt, a tutti gli effetti, Zanardi non è Pazienza: Zanardi gli fa il culo, a Pazienza, la vota che lo incontra. Però la cosa strana – prendiamo Pazienza: il suo segno, il modo in cui disegnava diventava significato e contenuto.
G – Ieri ero con Liberatore e il suo disegno è proprio la sua “carne”.
R – Le cose che preferisco di Liberatore son quelle che ha fatto con Tamburini. Però Liberatore in realtà non ha bisogno della parola. Quando ci mette le sue parole è più debole.
G – Anche perché non gliene frega nulla, delle parole, come ci ha raccontato in questi giorni. È un altro tipo Mannelli: son solo “carne”. Li invidio molto, per questo.
R – Perché vanno in quel verso. Tu sei unito alla parola.
G – Si, però …
R – Ma ragiona su una cosa. Il modo in cui usi le parole nei tuoi fumetti, il modo in cui usi il lettering. La tua parola è disegno.
G – Sì, cavolo. Ho studiato tanto per cercare di mettere alla pari il segno grafico e le parole scritte. Tanto che quando, per farmi un complimento, mi dicono “disegni bellissimi, ma il fumetto non l’ho letto”, ci rimango malissimo.
(Risate)
G – Non hai capito le parole che ho sentito allo Strega…
(Risate)