Da buon lettore medio di fumetto mainstream statunitense, l’anno scorso ho passato un sacco di tempo a incensare due prodotti già di loro baciati dalla critica e messi sotto i riflettori in maniera pressoché costante. Parlo di Hawkeye e Saga.
Nulla di male, intendiamoci. Sono ancora convinto del loro valore, e rimango sicuro del fatto che siano pochi i prodotti seriali capaci di stargli alla pari. Anche nelle solite onanistico/egomaniacali classifiche di fine anno, questi titoli sono riusciti a spuntarla praticamente ovunque. Certo, dividendosi lo spazio con qualche sconosciuto fumetto autoprodotto (per far vedere che si è comunque attaccati alle radici underground), una spruzzata di web (per mostrare che si è al passo coi tempi) e magari qualche ritorno clamoroso (perché noi c’eravamo già prima e quindi la sappiamo più lunga di voi). Penso che conosciate bene il giochetto, che si tratti di fumetti, cinema, dischi o ristoranti. Bisogna sempre giocare tra il populista e l’anticonformista ricercato. Spiazzare & rassicurare.
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Ebbene, proprio a questo valzer avevo ricondotto l’inclusione (e in più casi) tra il meglio del 2013 del one-shot The Origin of Hordak (DC Comics). Come poteva non essere, per l’ennesima provocazione da kidult nostalgico? Hordak, per chi non se lo ricordasse, era il cattivo supremo (anche più di Skeletor) della serie di He-Man e i Dominatori dell’Universo. Potrebbe mai, un titolo simile, arrivare a scalfire il dominio dei miei adorati Hawkeye e Saga? Stiamo parlando di due lavori cooosì adulti. Il meglio che si possa chiedere. Viviamo in un periodo dove l’approccio maturo è tutto quello che chiediamo alla narrativa di genere. Poco importa se ci muoviamo all’interno di scenari incapaci di stupirci realmente, l’importante è avere l’impressione di avere tra le mani qualcosa che nessuno possa scambiare per acerbo e\o bambinesco. Proprio come si ritrae Takashi Murakami nella sua ultima serie di opere, Il Ciclo di Arhat, siamo Piccoli Principi – non riusciamo a rinunciare a giornaletti pieni di astronavi e tizi in calzamaglia – impegnati a passeggiare su aridi asteroidi di teschi umani (dalle stesse parole di Francesco Bonami, curatore della mostra presso Palazzo Reale). E a dircelo è l’alfiere delle perenne pre-adolescenza della società nipponica, uno che fino a ieri era si crogiolava nel congelamento di certi valori. Come è possibile che in un contesto simile qualcuno riesca a trarre un fumetto memorabile da una serie di giocattoli? In maniera molto semplice: mettendo al timone quel mostro di Keith Giffen. Che in questo caso si prende pure la briga di disegnare il tutto, posseduto da una foga kirbyana come se ne vedono di rado.
L’albetto in questione è effettivamente una perla. Un concentrato di tutto ciò che un ragazzo cresciuto consumando cultura pop vorrebbe vedere. In 20 smilze pagine abbiamo battaglie epiche, un tetro mondo tecno-fantasy, mostri enormi, scontri fratricidi, profezie, cattivi cosmici e un finale nero come un pozzo di catrame. Non male, se si pensa che si sta parlando di un tie-in tardivo di una serie di giocattoli anni ’80. E se questo episodio speciale è così bello, perché non prendersi la briga di recuperare tutta la serie? Il primo numero, scritto da James Robinson (quello di Starman), è – in tutta sincerità – una tragedia. Svogliato, banale, piatto. In poche parole, scritto da qualcuno che non crede minimamente in ciò che sta facendo. Ecco quindi che dalla seconda uscita salta a bordo il buon Keith, che qualche mese dopo ci porterà allo speciale di cui abbiamo già parlato.
Giffen prende un fumetto destinato al nulla e ci butta dentro l’anima. Il risultato è una run di cinque numeri frizzante, colta, divertente e ricca di spunti per i successivi scrittori. Il tono è quello smargiasso e picaresco dello swashbuckler movie (la variante ironica e spaccona del più serioso cappa & spada), arricchito da battibecchi e continui riferimenti a quanto siano assurde le vicende narrate. Si pesca a piene mani nel camp e nel kitsch, presentando uno alla volta i coloriti antagonisti dell’eroe Adam, e dandone connotazioni assolutamente bidimensionali. Sorte diversa per Skeletor, lacerato da dubbi interiori fatti solo intuire al lettore ma che vanno a modificare direttamente la vicenda (perché aspetta tanto a uccidere Sorceress? E’ talmente succube da lasciarsi sopraffare anche da vincitore?).
Ok, non confondiamo le idee: leggendolo, non avrete tra le mani un capolavoro. Ma l’entusiasmo fanciullesco con cui Giffen dipinge questo strambo arazzo generato da scadenti pupazzetti in plastica, è straordinario. E il tutto si riflette sulla freschezza della serie, tanto che c’è da restare un poco amareggiati per il suo abbandono. Fino a quando non veniamo a conoscenza del nuovo (e attuale) scrittore regolare: Dan Abnett. Un autore non dotato del fenomenale curriculum del suo predecessore, ma altrettanto determinato a dare il suo meglio. La sua idea è semplice: via l’ironia, avanti con l’epica fantasy da metal band anni ’80 (alla Brutal Legend, verrebbe da dire. Una delle testimonianze più evidenti del genio di Tim Schafer). Nel giro di pochi numeri, passiamo così da battaglie senza esclusione di colpi alla discesa nei cinque anelli dell’aldilà di Eternia. Quindi zombie, mostri rocciosi, civiltà di uomini-serpente, macchine volanti e un sacco di altra roba che avrei sempre voluto trovare nei fumetti che leggevo da ragazzino. Il ritmo è vertiginoso, i dialoghi scolpiti nella roccia, i colpi di scena mai telefonati e il mondo in cui si muovono i Nostri eroi sempre più affascinante. Un universo dove un tizio può avere almeno un paio di arti robotici ma non può evitare di restare a bocca aperta davanti a una mongolfiera.
Siamo ancora nel campo delle produzioni usa & getta, eppure il vigore, la trasparenza e lo spirito genuino con cui Abnett scrive ogni singola linea di sceneggiatura non fanno pentire neppure per un attimo della scelta di averci dedicato del tempo. Unica pecca (che caratterizza tutta la serie, escluse le straordinarie matite di Giffen per lo speciale su Hordak): il livello infimo dei disegnatori coinvolti, autentici nostalgici convinti che gli anni ’90 non siano mai finiti. Se avessero assoldato un James Stokoe qualsiasi, probabilmente tutta l’operazione avrebbe raggiunto una caratura ben diversa. Il succo è comunque un altro: come è possibile che due scrittori abbiano accettato un lavoro non certo tra i più desiderabili del settore, e ne abbiano tratto una serie con un’identità forte, a cui molti vorrebbero dare almeno una possibilità? Vista la poca visibilità dell’operazione, gli è stata data carta bianca lasciando concentrare gli editor su progetti più remunerativi? Oppure i Dominatori dell’Universo sono personaggi migliori di quello che ci si potrebbe aspettare (dopotutto, hanno anche la loro particina nel Falò della Vanità di Tom Wolfe)? Non lo sapremo mai.
L’unica cosa di cui siamo certi è che il candore – quasi infantile – con cui la materia è stata approcciata, gli ha fatto un gran bene. Nessuna sovrastruttura, nessuna provocazione, nessun calcolo. Solo la voglia di scrivere buone storie su di un tizio depilato in perizoma peloso e spadone a due mani (mentre i suoi compari brandiscono laser o scettri magici). Non avrei mai pensato che, nel 2014, un fumetto in cui il cattivo vive in un castello a forma di teschio potesse essere così rinfrescante. Ma Giffen e Abnett non sono i soli esempi.
Pensiamo allora al cinema di Minoru Kawasaki (un pazzo che con The Monster X Attack G8 Summit riuscì a partecipare al Festival di Venezia), a quello di Garreth Ewans (autore di The Raid, versione su celluloide di uno Street of Rage qualsiasi) o, tornando un attimo indietro nel tempo, a John Woo (secondo una storica definizione di Nocturno Cinema “colui che ci ha restituito gli eroi dell’infanzia”). Ai videogiochi di Hideki Kamiya (il suo Wonderful 101 è l’antidoto perfetto a tutto il grigiume dell’odierna industria dell’intrattenimento). Agli atroci Prison Pit del fumettista Johnny Ryan, uno che è arrivato alla Fantagraphics rimanendo fermo ai disegni truculenti delle medie. Alle straordinarie sculture in cemento armato di Adrián Villar Rojas, mastodontici retaggi di un’infanzia mai finita. Tutti autori saliti agli onori delle cronache per le loro idee assurde, in cui nessuno avrebbe mai creduto. Almeno fino a quando non ci si è ritrovati tra le mani il prodotto finito. E allora – sorpresa – ci si è trovati costretti a cambiare idea. Autentici samurai pronti a tutto pur di portare a compimento i loro progetti, imbevuti di passione candida e fanciullesca per immaginari che tutti avremmo trovato troppo semplici o banali per il gusto comune dell’annoiato spettatore moderno. Eppure la storia non fa che dare ragione a loro.
In una fase storica in cui il sense of wonder risulta sempre più latitante, forse lasciarsi trascinare dalla propria passione senza cercare di nobilitarla sempre e comunque, potrebbe essere una buona strada. Volete un’altra dimostrazione? In questi giorni è tornato in edicola il mitico Hammer, a quasi 20 anni dal suo debutto. All’epoca i suoi autori non erano che semi-esordienti ossessionati dalla fantascienza più hard-core. Desiderosi di buttare dentro a questa straordinaria opportunità di una serie regolare tutto ciò che più gli piaceva. Il risultato di un comportamento tanto sconsiderato? Una (mini) serie che non è invecchiata di un giorno, o quasi. In altre parole: il meglio in cui potessero sperare.