Parlaci un po’ degli artisti della EC e dei loro stili. In particolare di Jack Kamen, Graham Ingels e Jack Davis.
Bene. Jack Kamen era un illustratore tradizionale. Disegnava ragazze deliziose. Nelle sue storie erano tutti attraenti. A un certo punto facemmo una di quelle storie in cui l’autore si commisera e parla direttamente con il pubblico. La storia, “Kamen’s Kalamity”, racconta i problemi di Jack Kamen, che voleva essere un disegnatore horror ma non riusciva ad essere una persona orribile. E così era costretto a disegnare tutte queste persone carine. Non mi ricordo più la storia ma mi ricordo che ci divertimmo molto a giocare con il suo stile pulito. E, alla fine del fumetto, facemmo in modo che accadesse qualcosa per cui lui diventava la persona terribile che voleva diventare.
Nella realtà Kamen voleva solo storie pulite con un finale scioccante. Come il fumetto in cui un uomo rimprovera sua moglie perché non tiene la casa pulita e lei lo ammazza, e nel finale prende un mucchio di barattoli tutti graziosamente sistemati e ordina ogni cosa al suo posto: il polmone del marito, il cuore del marito, il fegato… Jack era così, e noi gli costruivamo storie su misura.
Per Graham c’erano paludi gocciolanti e cimiteri e corpi fangosi che ne venivano fuori. Aveva questo stile ed era molto più coinvolto se poteva disegnare quelle cose. Jack Davis invece era il tipico bravo ragazzo di campagna. E allora gli facevamo disegnare fattorie. E poi c’erano molti altri disegnatori. Gente come Al Williamson, Severin, Elder… Quando EC Comics venne tagliata fuori dal business a causa del Comics Code, il codice di autoregolamentazione del fumetto, continuarono a fare cose fantastiche per conto loro. Noi però abbiamo il merito di averli scoperti.
Wally Wood, per esempio, era l’apprendista di Harry Harrison e, dopo che lavorai per alcune storie con Harrison e con Wood, presi da parte Wally e gli dissi: “Credimi, Wally, sei un disegnatore di talento e Harry ti sta sfruttando. Sta campando con le tue cose.” E poi aggiunsi: “Perché non inizi a lavorare per conto tuo? Ti darò io lavoro”. Ed è così che Wally Wood ha iniziato. Lo portai via a Harrison e lui cominciò a brillare per conto proprio, soprattutto nella fantascienza.
Wally fu il primo a inserire tubi, rotelle, oggettini e scatole all’interno delle navi spaziali. E ora nei film di fantascienza, da Guerre Stellari in avanti, quegli oggetti sono dappertutto.
Okay, bene, parlami del Giudice Murphy. Dimmi qualcosa sulla storia “il Giorno del Giudizio”.
Il Giudice Murphy era lo zar della Commissione di Controllo sui fumetti (Comics Code Authority), così come Will Hayes lo era per quella sui film. Ma penso che la sua missione fosse cacciarci fuori dal mercato. Nella migliore delle ipotesi ci avrebbe reso la vita così difficile che Bill avrebbe dovuto smettere.
Il Giudice fu davvero duro con me. Gli procurai personalmente ogni pubblicazione perché la leggesse e lui volle farlo personalmente. E volle mettermi i bastoni fra le ruote in tutto ciò che a lui non andava bene. Anche sulle storie di tolleranza razziale, che erano dure da far digerire.
Stavamo letteralmente andando a rotoli e ne ero molto triste. Avevamo una storia di fantascienza sui mutanti che si era completamente rifiutato di farci portare avanti. Allora mi procurai una storia sostitutiva, che ovviamente diede altri problemi. Poiché non avevamo potuto avere i mutanti, quella che scelsi fu una storia sulla tolleranza razziale chiamata “Il Giorno del Giudizio”.
Avevamo già iniziato a lavorarci prima della convocazione da parte della Commissione. Era la storia dell’astronauta Tartlon che giunge sul pianeta Cybrinia, popolato da robot che si autoriproducono e si autorigenerano perché gli umanoidi del pianeta si sono da tempo estinti per una ragione non meglio definita. Questo astronauta cerca di capire se questi robot siano qualificati per integrarsi nella democrazia galattica.
Nella storia ci sono robot arancioni e robot blu. E i robot blu hanno pochissimi diritti sociali. Insomma, un mucchio di parallelismi con la segregazione dei neri. E i pregiudizi razziali c’erano allora come ci sono adesso. E l’astronauta, che indossa un’uniforme spaziale per la mancanza di atmosfera sul pianeta, dice loro che non sono qualificati per la democrazia perché hanno ancora intolleranze razziali e non ci sono uguali opportunità. La solita roba, insomma. Quando l’astronauta torna sull’astronave e si toglie l’elmetto ecco il colpo di scena: la sua pelle è scura. E’ un nero.
Bene, il Giudice Murphy disse: “Non puoi metterlo”.
Io dissi: “ Cosa, non posso mettere?”.
E lui: “Non puoi mettere un uomo di colore”.
“Ma questo è il fulcro della storia”.
“Non puoi mettere un uomo di colore”.
“Dove è scritto nel Codice che non posso mettere un uomo di colore?”.
Insomma, la storia andò così: io non potevo avere un uomo di colore, e lui voleva obbedienza.
Così mi incazzai e tornai indietro da Bill e gli dissi “Dimenticati la storia. Non ce la faranno pubblicare”. Erano irrazionali nella loro censura. Bill chiamò il Giudice Murphy e gli disse: “ Che succede?”. E il Giudice Murphy: “Non puoi avere un uomo di colore”. E noi: “Adesso chiamiamo una conferenza stampa e montiamo un gran casino sul bigottismo del Code”.
E allora, dopo una lunga pausa, il giudice ci disse: “Bene. Potete farlo. L’astronauta può essere un nero… Ma dovete togliergli il sudore dalla pelle”. Bill lo mandò al diavolo, chiuse il telefono e portò avanti la storia. Credo che questo fatto abbia segnato la fine delle nostre pubblicazioni di fantascienza. Ma “Il Giorno del Giudizio” è diventato un classico: non era una gran storia, ma era molto ben formulata… E fece casino.
Quando hai usato la faccia di Alfred E. Newman per la prima volta?
Il faccione di Alfred è stato introdotto su Mad da un editor della Ballatine, un tale Bernie Surecliff. Dicevano che un tascabile tratto dal comic book sarebbe stato vendibile e interessante [e avevano ragione, il fascicolo è stato recentemente ristampato]. Così prepararono questa cosa dal titolo “Mad reader” e Bernie, o qualcun altro, mise sulla copertina la faccia. Era quella di un ragazzo sorridente, con lentiggini e grandi orecchie asimmetriche. Allora Harvey la piazzò sul margine alto della rivista con il motto “What me worry?”. Così il personaggio divenne noto a tutti come il “Me Worry Kid”, o qualcosa del genere.
Quando presi in mano Mad decisi che quella faccia avesse un enorme potenziale per farne un logo. Questo ragazzo sorridente era perfetto per rendere pienamente riconoscibile Mad, la sua filosofia e il suo approccio all’intrattenimento.
Misi un annuncio sul New York Times alla ricerca di un ritrattista e mi imbattei in quello che all’epoca mi sembrava un vecchio, ma che ora so non superava la sessantina. Questo piccoletto, che si chiamava Norman Mingo, mi mostrò delle splendide rappresentazioni che aveva fatto per pubblicizzare articoli d’arte, auto e così via. Gli chiesi di diventare il nostro copertinista e fu d’accordo. Allora gli mostrai delle cartoline e altre cose che avevo raccolto per posta e gli chiesi “Puoi fare il ritratto definitivo di questo ragazzo? Non voglio che sembri stupido, ma che abbia un’aria innocente e angelica e che non sia vicino ai problemi di questo nostro mondo”.
Mingo ritornò con il ritratto definitivo di Alfred. Oggi è impossibile cambiarlo. Ho incontrato un sacco di copertinisti in seguito, e ognuno cercava di dare la propria versione di Alfred. Mai che gli somigliasse. Il loro era solo un disegno divertente. Invece Alfred doveva rimanere esattamente così. Non puoi modificarlo. Se prendi il ritratto di Alfred fatto da Norman e lo metti davanti allo specchio, vedi che è assolutamente asimmetrico. E già allo specchio non si somiglia più. Un occhio è più giù. Un orecchio è più su. Un lato della faccia è più largo dell’altro. E per questo è diventato un’icona americana. Fui io a dargli quel nome. Era uno degli pseudonimi che stavo usando per le sceneggiature per Picto-Fiction [uno dei tentativi di EC Comics di trasformare i propri comic book in riviste e fuggire al giogo del Comics Code]. Era un nome che ogni tanto saltava fuori. Forse anche Harvey lo ha usato in Mad e in alcuni altri suoi scritti. E forse anche all’Ed Sulivan Show il nome di Alfred Newman saltava fuori appioppato a qualcuno del pubblico.
Decisi che quel nome mi piaceva e lo diedi al personaggio. Nel terzo numero diretto da me nel 1956, lo candidammo come Presidente in alternativa a Eisenhower e Stevenson.
Dal momento in cui lo introducemmo, Alfred restò sulla copertina in quella e in moltissime altre forme. Mi sembra interessante notare che il numero di Mad Magazine che ha venduto di più non ha la faccia di Alfred sulla copertina, ma i suoi piedi. E’ successo nel numero conosciuto come Poseidon Adventure, dove si vedono i piedi di Newman sbucare da un salvagente. Lo capisci che è lui. Lo si riconosce anche dai piedi.
*Traduzione di Paolo Interdonato